“Città del deserto”
Diario libico
41. La via di Ghirza
[ Pagg. 71-74 ]
«Dall’alto delle tombe si vedeva, oltre la depressione dell’uadi, su un altro costone rispetto al luogo del nostro accampamento, un secondo gruppo di tombe, e a quelle si decise di recarsi nel pomeriggio. Intanto bisognava mangiare un boccone e riposarsi.
Per quanto la lunghissima sosta fra i ruderi avesse dovuto attirare l’appetito, in realtà io mi sentivo quasi senza bisogno di cibo: del resto la colazione fu, come dire, a volo d’uccello. Un po’ di tonno con cipolle crude, a cui di mio aggiunsi un formaggino, l’acqua della ghirba, e a letto.
La tenda risultò infocata al punto di mozzare il fiato. Siccome però il vento continuava, e non era il ghibli ma un vento fresco, bastò rialzare la tenda ai lati corti perché fosse percorsa da una corrente continua, come in condotta forzata. E qui le zanzariere furono provvidenziali. Perché c’erano tante mosche appiccicaticce e distratte fino al punto di entrare, come nulla fosse, in bocca. E nulla è più revulsivo che sentirsi il sudicio insetto svolazzare in libertà sotto il palato. Letteralmente bisognava stare attenti a non aprire troppo le labbra. Ma con la zanzariera il riposo scese come la rugiada.
Mi svegliai leggero, con la pelle asciutta, e non potei fare a meno di pensare ai sonni estivi, affannosi, in una pozza di sudore, da cui ci si desta come bastonati.
Il secondo gruppo di tombe era distante e dovevamo riprendere l’automobile. L’accampamento aveva finito insensibilmente per neutralizzare il deserto. Appena se ne fu fuori dalla vista, fuori dall’uadi su un nuovo pianoro sassoso, il deserto si ricomponeva. Tornava nella dimensione che non ha dimensioni, per cui è sconfinato anche dove restringe l’orizzonte, nella privazione che tuttavia non fa terra bruciata. Lo sentii con crudezza quando ad un tratto, lungo la incertissima pista, si vide una bottiglia vuota di gin, evidentemente a segnare una direzione. Dovunque i rifiuti risultano sgradevoli, ma qui nel deserto, la bottiglia vuota si sentiva come una scorrettezza: c’era una severità che andava rispettata, una nettezza che era superiore alla pulizia, una mancanza d’ordine che non ammetteva il disordine. Cammelli, pecore, capre passavano e non lasciavano traccia: e quella che lasciavano era tale che si pietrificava subito, scompariva restando in vista come ghiaia. Gli arabi non lasciavano cartacce, latte vuote, bottiglie. Silenziosi trascorrevano in quel letto morto delle strade che sono le piste, note ad essi senza contrassegni e anche senza le rotaie delle macchine. Solo, se qualcuno moriva in cammino lo seppellivano dove era caduto, sotto il peso di uno strato di pietre, e una sola a paletta al posto della testa. Nulla, se non quella pietra a picco, distingueva il luogo da quell’immenso cimitero di pietre che è tutto il deserto.
L’autista si accorse di aver dimenticato di mettere la benzina: era meglio rientrare al campo, si trattava di poche decine di minuti. Ma io chiesi di aspettare lì, che tornassero a prendermi: la pista era chiara, né poteva esserci dubbio. Così rimasi solo e mi sedetti fra i sassi. Naturalmente mi venne di ricapitolare quel tempo che avevo passato nel deserto. Si riduceva a ben poco: ma come il passato veniva a trovarsi ad una distanza che rigorosamente il tempo trascorso non giustificava; questi limitati giorni s’erano distesi in me come un fiume in piena, non sapevo più quanto spazio occupassero. E domandandomi il perché di un tale sopravvento, io non potevo certo arguirlo dalle cose che erano accadute, e quasi non facevano materia, o da quelle antichità che avevo visto, e troppe altre, assai più importanti, dovevo riconoscerne per il mondo. Sicché in definitiva tutti i minuti episodi che si erano succeduti si riducevano a polvere di vita comune, che come polvere ricadevano, e si annullerebbero nell’indistinto. Ma io sentii che proprio il fatto di non essere che della vita comune si poneva come significativo, e che tutto ciò si disponeva in una prospettiva diversa, perché io mi trovavo come se, quella vita comune, la guardassi da un altro lato. Non era il lato opposto a quello da cui si guarda il palcoscenico, e tutto si riduce allora ad una finzione: nulla qui diveniva finzione, anzi l’inospitale accoglienza degli inglesi, il pacato risentimento degli arabi, le scomodità di una convivenza improvvisata restavano col loro peso di realtà concreta e non si vanificavano. Solo che io le sentivo ora senza rancore, senza partecipazione attiva: mi trovavo come se mi fosse morta una persona cara e io potessi contemplare l’evento, non già con freddezza ma nella sua vicenda vitale più grande, illimitata, partecipe al passato e al futuro, mentre l’urgenza del caso singolo lo fa percepire solo nel morso locale e dolente del sentimento.
Tutta la vita mia continuava ad essere la mia vita, certo, ma non era che un episodio, fra gli infiniti, del mondo e quel che contava realmente non poteva dirsi davvero l’incidente che mi aveva indispettito o la pochezza d’animo di un compagno, ma un fatto basilare che sottofondava tutto e non s’aboliva né si giustificava per quel minuto andirivieni come di onde di sabbia, ora così disposte ora cancellate, che variegavano le dune degli uadi e che sembravano le labili impronte digitali del caso, di un destino solo superficiale. Ma il vivere non si esauriva in quella cieca scrittura sulla sabbia, né si limitava alla persona che lo pensava. Ben altrimenti io sentivo e mi spiegavo ora quel che avevo percepito dapprima nel deserto, che ogni luogo indiscriminatamente diveniva un centro, il centro del mondo, ed io l’albero della vita. Era giusto infatti, ma solo in questo, che non riportava tutta la vita alla persona, ma la persona investiva di una vita più grande. Onde compresi come nulla fosse più lontano dalla solitudine di quel che provavo da quando ero nel deserto. E come il deserto, così inteso, fosse ben altro che solitudine e derelizione. Io non mi sentivo derelitto, per quanto posassi come sul fondo dell’anima, per quanto tutto mi fosse più lontano del cerchio dell’orizzonte, per quanto la singolare spoliazione che avevo subito mi mettesse a nudo e come frugato dalla luce, per cui veramente ero di fronte a me stesso in una confessione totale. Non ero derelitto tuttavia e, se non provavo gioia, per la prima volta in fondo a me non covava l’angoscia, come il sotterraneo sempre aperto, la voragine in atto.
Una serenità sconfinata s’era aperta in me, come una alba. Il paese che mi circondava era tutto meno che un paesaggio, non era più nemmeno un paesaggio distrutto, come sono in realtà gli uadi che furono piante, furono biade. Era, con quello sconfinato letto di pietre, qualcosa come il fondo di un mare prosciugato o un differente pianeta. Ma era anche la terra come unità primigenia, come il numero uno che è tutti i numeri. Sentii allora che si dividevano le persone fra quelle che vivono in un paesaggio e quelle che vivono in terra, e come vivere in terra sia vivere con la terra, in una stretta prenatale. Certamente, vivere con la terra poteva anche venire frainteso alla base, perché la terra è ogni volta quella città, quella campagna, quel mare, come quella notte, quel giorno, quel tramonto; onde la distinzione, appena posta, sembrava si sciogliesse come la neve fra le dita. Ed ecco mi era sovvenuto il deserto per farmi intendere come la terra può non essere paesaggio, casa, fiume, mare, e mostrarsi in una fase anteriore alla vita, all’essere dell’esistenza concreta, in quanto la sua materia, sassi e sabbia, non conta come materia e supporto della vita, come i rifiuti stessi, amorfi, sterilizzati dell’essere.
Ad una ad una mi ritornavano quelle prime determinazioni che avevo isolato durante il viaggio: la mancanza di limiti che pure non è l’infinito, l’impossibilità di valutare le distanze e le grandezze, che pure non è perdita di una misura interiore, l’assenza di ordine che non è disordine. Ed ora avevo sentito che il deserto non è puro, ma è privo di qualsiasi impurità; che non è utile, ma non consente rifiuti. A questo punto mi colpì che tali determinazioni, per negative che fossero, erano anteriori alla mia stessa coscienza e al mio pensiero. Il deserto come esperienza diretta dell’essere.
E qui non mi persi, mi ritrovai. Onde tutte le conseguenze, che ne trassi e continuerò a trarne finché io viva, sono legate a quella rivelazione di un attimo che fu rivelazione di null’altro che di se stesso. »
Cesare Brandi
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