L'ironia è dinamica

L'ironia è dinamica

mercoledì 20 luglio 2011

Teatro dell’Opera, “La Bohème”

Il vanto bohémien si svela sin dall’incipit. Le necessità materiali incombono e Rodolfo si spende in un delirio onnipotente. Sacrifica le pagine del suo dramma affinché arda nel camino. In una combustione dionisiaca che mitighi il rigore invernale, l’ebbrezza dello spirito annienta lo scartafaccio senza ucciderne il lirismo. La vita frugale esalta la voluttà dell’artista, che come crea, così distrugge. Dipinto da Marcello e sfuggito alle fiamme, “Il Passaggio del Mar Rosso” celebra l’abbandono dello status servile che determinati convenzionalismi borghesi impongono. Detestabile l’asservimento, vivere di stenti è meglio che prosperare, se a preferirsi è l’andamento incerto e dinamico di una sorte fluviale che lambisce le costituite solidità sociali, optando per le piattaforme precarie di neolitica memoria. Ben accolta è la provvidenza di cibi, bottiglie di vino, sigari e legna - due garzoni irrompono nella soffitta portando le provviste - cui fa seguito la visita di Mimì. La robusta componente sinfonica sostiene gli amori alla ‘mordi e fuggi’, intrecciandosi la passione carnale e quella esistenziale. Le partiture vocali dei quattro intellettuali sono agili fraseggi che interpolandosi lievemente nella struttura aperta della conversazione producono un’armonia mutevole, “atmosferica”. Sotto i cieli bigi di Parigi, dalla poetica delle piccole cose alla vivida brillantezza delle tinte tra i tavolini del Caffè Momus, fino al mélo, le continue variazioni di tono tratteggiano la labile interazione conviviale di felicità impressionista. Il gelo degli interventi della madamigella tisica precipitano l’ensemble nella cupezza verista. Tutto esaurito al Teatro dell’Opera di Roma, “La Bohème” rinnova il successo storico di Giacomo Puccini nell’attualità magistrale della regia di Marco Gandini, della direzione di James Conlon, dell’esecuzione dei tenori Ramòn Vargas e Stefano Secco e soprano Hibla Gerzmava e Carmela Remigio.


“La Bohème”
Musica di Giacomo Puccini

Opera in quattro atti

Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa

16 - 22 Giugno 2011
Teatro dell’Opera di Roma


Ila di Melanila

martedì 5 luglio 2011

bɔemjɛ̃


Chagall.Il mondo sottosopra

“Mi tuffo nei miei pensieri, volo sopra il mondo”, Chagall è l’artista della confluenza. Canta il tema dell’incontro. In un registro surrealista campeggiano accensioni arancio e sprazzi di rosso e verde. Il cuore magmatico della terra, la visione di una Parigi notturna contrassegnata dal reticolato metallico della Tour Eiffel che si staglia delicato su un monocromo blu, le sue tele sono erranza e approdo. Le case e il tempio di Vitebsk designano la sede comune abitata dai custodi dei rotoli della Torah, dagli artisti del circo, dai rivoluzionari bolscevichi, stanziali e in viaggio. Le tappe del migrare pellegrino, la partenza, l’esodo, l’arrivo, appartengono a un unico spazio culminante e trionfante, in cui il sentimento amoroso annulla la forza di gravità, permette una levitazione sponsale, testimonia la rivoluzione, rivela la salvezza in una croce. Esultanza festosa della vittoria liberante, aria, acqua, terra, fuoco, i quattro  elementi compartecipi della stessa dimensione onirica, inclusioni allegoriche di animali, capre e uccelli dalla forte pregnanza simbolica, ricerca ansiosa del rifugio, raduno visionario, il realismo magico è la risposta alle compartizioni gerarchicamente predisposte che insistono sulla negazione. Non allineato con la Russia imperiale né con la Russia dei Soviet, non assimilabile al naturalismo, al suprematismo o al cubismo, ebreo bohémien e cosmopolita, Chagall celebra la sublimazione della materia, l’intimità del cuore intrattenuto nel dialogo, l’umanità dei tempi ultimi.

22 Dicembre 2010 - 27 Marzo 2011
Mostra Museo dell’Ara Pacis

Ila di Melanila

mercoledì 29 giugno 2011

VINICIO CAPOSSELA, CANTORE


“MARINAI, PROFET E BALENE”

Sciamano, taumaturgo, aedo, satiro, Vinicio Capossela canta il mito. Poeta del naufragio scongiurato, getta le reti sul mare rapsodico delle sonorità, le più varie e desuete. Tentato Ulisse, sferzato Giobbe, novello Davide contro Golia, il vocalist è impegnato nel duello con l’eccedenza insieme al Coro degli Apocrifi. Edipo in dialogo con l’oracolo, capitan Achab armato contro il Leviatano, Pinocchio nel ventre del cetaceo, il menestrello della procella narra la fiaba della mostruosa fascinazione. Astro che offende pianeti e soli, biancore superlativo che fa impallidire i lumi, detestabile quanto la misura della sfida ingaggiata per spegnere l’accecante bagliore, la minaccia albina percuote balenando, sovrasta in grandezza, è un parossismo. Bacino d’acqua per Narciso, offre speculare il riflesso. Vestito di peli di cammello l’asceta capitano reintroduce il monito antico, ripropone il segno di Giona, precursore del Messia. Antonis Xylouris, lo “Zeus con la lira”, leggenda vivente della musica cretese, fa risuonare stranianti echi sottomarini. Il Pequod di Capossela diviene battello ebbro sui flutti. Poemetto musicale che offre un viaggio visionario, lavoro concertistico che dà lustro alla festa danzante, progetto speciale con la “ciurma”, il Coro degli Apocrifi e l'Ensemble Cretese, “Marinai, Profeti e Balene” pizzica l’inconscio e la fine trova il suo inizio. Per chi volesse imbarcarsi l’appuntamento è domenica 31 luglio, Cavea dell’Auditorium ore 21. Info: www.auditorium.com.
Ila di Melanila

martedì 28 giugno 2011

LUDOVICA E GUGLIELMO, INTERLOCUTORI


GUGLIELMIADI 7.
SIPARIETTO
“Sono un monocromo saturo”.
“Ludo, mi siedo”.
“Quando sono felice la mia anima rasenta la compiutezza e la tenuità di un acquerello. I colori pastello si sciolgono in acqua, diluiti viaggiano fluidi e trovano casa nella carta senza esitazioni e pentimenti”.
“Certo!”.
“Gouache! Quando sono triste le tempere si addensano e si appesantiscono con la biacca, miscelandosi ulteriormente fino all’opacità senza respiro della consistenza asciutta di una pittura crepata”.
“Un bicchiere d’acqua fresca?”.
“Sono a posto, grazie”.
“Chissà se riusciamo a trovare i biglietti per il festival spoletino …”.
“La gioia è un equilibrio sempre precario sulle onde dell’improvvisazione jazz, ogni tanto uno squillo di tromba!”.
“Non ho ancora bevuto il caffè, manca il latte, se non è macchiato non lo bevo. Ti ricordassi mai di fare la spesa!”.
“La malinconia è l’assenza di suono, senza il ricordo della nota precedente, senza l’attesa della battuta successiva”.
“Un pranzo senza caffè non è un pranzo, dico io!”.
“La speranza è l’incerto passaggio dall’esaurimento alla completezza esaustiva del colore. È l’evoluzione dalla mancanza privativa alla saturazione supplementare di tono e timbro”.
“Mi domando se riuscirò a finire entro l’autunno la lettura dell’opera completa di Georges Simenon”.
“La generosità è colmare lo spazio bianco del foglio … o lasciarlo aperto a infinite possibilità?”.
“Stasera ti cucino i bucatini con pomodoro al forno”.

Ila di Melanila

giovedì 23 giugno 2011

LUDOVICA E GUGLIELMO, EROI



GUGLIELMIADI 6.

TI DIRO’ CHI SEI
D’estate il divano di velluto s’impone come una necessità: come imminente, incombente segno di cambiamento. Da oggetto diventa un’entità richiedente, ti interpella, ti interroga sul buonsenso e la ragionevolezza che dovresti sempre avere nella vita: ti impone di buttarlo via e di comprarne un altro, senza esitazioni. D’estate il divano di velluto equivale allo svelamento di un’evidenza: non tutto è migliorabile, l’utopia è un delirante illusorio esercizio cosciente di assurdità. Anche con un telo di lino sopra, i cuscini morbidi rivestiti di tale tappezzeria si infuocano e a sedercisi le membra sprofondano in un tepore indesiderato, che richiama un torpore alienante e confusivo. Quel guscio comodo offre un non-relax opprimente, ma adoperarsi a favore di un acquisto quando ci si dovesse trovare in condizioni psicologiche disagevoli è sconsigliabile. Un indifferente e robusto divano in pelle almeno ha il pregio di restare inalterato. Poiché tonico, non accoglie l’impronta del corpo. Non muta aspetto, non promette nulla che poi non possa mantenere, scolpito e fiero sta. La poltrona in vimini è generosa perché fa respirare le sue fibre aggrovigliate. Non del tutto indipendente, perché ha bisogno di cuscini che ne ingentiliscano la seduta, suggerisce di non star molto adagiati, giusto il tempo di bere una bevanda fresca e poi uscire. Funzionali sedie e sgabelli hanno un motivo fastidioso: evocano il concetto di necessità e di estemporaneità, un binomio inaccettabile.
Ludovica si crogiolava rallentando le parole in testa, voleva temporeggiare, indugiare. Ci sarebbe riuscita per un paio di giorni, poi il ritmo mentale vorticoso avrebbe ripreso a estenuarla avviluppandola, accelerando nel rapporto di causa e di effetto complesse problematiche. Avrebbe di nuovo avvertito il peso del mondo su di sé. I suoi muscoli spinoappendicolari avrebbero sostenuto un indebito sforzo facendo di lei un soldato cosmico ingaggiato in guerre stellari senza fine.
Il dotto precariato di Guglielmo la stava inducendo a odiarlo: sempre a studiare, sempre sui libri, lontano dalla battaglia, avulso dalle necessarie pratiche sociali che fanno delle public relations un modo per stare a galla. Si era assunta totalmente la responsabilità dello sponsale volume corpulento, dedito all’apprendimento. Avrebbe voluto urlare la rabbia contro l’idealismo impersonato dal marito, origine di tutti i suoi mali: ‘Hegel ci ha fatto fuori tutti!’, biascicava.
Semplificare, ridurre, dirigere: avrebbe ragionato sul da farsi, fino a vincere. Avrebbe scritto favole per bambini in cui le frottole - finalmente più temibili del lupo stesso - avrebbero rivelato il vero volto dei personaggi delle storie e delle avventure, avrebbe sottoscritto petizioni, avrebbe scelto il partito giusto e un sindacato. O avrebbe chiesto la separazione.
MADMADEMADMADEMADMADEMADMADEMADAM
“Da quanto attribuisci anima all’arredamento? Mi preoccupi”, sentenziò l’uomo con cui abitava.
A partire da quale momento, precisamente non lo sa, Ludovica interagiva con l’ambiente, senza ausilio di sostanze psicotrope. Non colloquiava con le piante, interpretava lo spirito che tutto pervade, anche il mobilio. “La Chaise Longue potrebbe non trovarsi bene da noi”, questa sola affermazione ebbe il potere di far scaturire un rigagnolo di sudore sul viso di Guglielmo, assorto e avvilito tra la gente loquace e indaffarata del MADEexpo di Milano. “Perché, se posso domandarlo?”, “Beh, non è mia intenzione privare Le Corbusier della sua gloria, ma quella struttura tubolare lucidata a specchio mette soggezione, è ineludibile il rigore elegante della sua struttura, impone l’imbarazzo del confronto con gli altri componenti del nostro scenario post-prandiale, qualora la comprassimo per il salotto. Invoca per sé un rispetto regale, una calma e una solennità da pezzo singolo: non si integra, non si integra ... i suoi moduli allungati favoriscono una distensione che non prevede parole da scambiare con nessuno. Presuppone il vuoto intorno a sé, il silenzio. La Chaise Longue non è snob, ma isolazionista sì, e freudiana purtroppo. Se poi è rivestita di vernice epossidica nera e di materassino e cuscino per la testa, è un inno al tratto marcato senza sfumature, ricorda più banalmente il lettino prendisole ma non siamo in vacanza! E chi può partire del resto? Che dire del Daybed di Mies van der Rohe? Con i suoi piedini cromati sancisce la fine della distinzione tra veglia e sonno, imperdonabile. Non vorremo nessuna Chaise Longue”.
“Costa molto invero”.
“Mies?”.
“Mies van der Rohe vuoi dire …”.
“Il Daybed”.
Ma stiamo parlando della Chaise Longue!”.
“Voglio il fagiolo”.
“Perdonami?”.
Voglio il sacchetto di fagiolo: la Beanbag di Lucy dei Peanuts”.
“Sono anni che dico di no, ti conosco più di quanto non conosca me stesso: tu odieresti la gomma piuma di memoria, inizialmente comoda ti sentiresti  poi catturata dentro la sagoma informe, trattenuta in una trappola, mi chiameresti per liberarti da quella morsa e dovremmo trovare un acquirente su eBay perdendoci dei soldi tra l’altro …”.
“Allora la poltrona Joe di De Pas”.
“Niente affatto”.
“Perché?”.
“Perché ti sentiresti sicura come tra le mani di Dio, poi piccola e indifesa fino a regredire ai sei anni di età, faresti di quel guantone la tua casa, lo eleveresti a simbolo di protezione e rifugio, entreresti concettualmente in una zona di riparo da cui non usciresti più”.
“Totti Gol!”.


Ila di Melanila


 

domenica 12 giugno 2011

RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE

MASSIMILIANO PERROTTA, SICILIANISTA MODERNISTA


L’incanto immobile, ipnotico e disperante degli scenari terrosi senz’acqua. La sferza del sole e l’arsura della bocca mitigata dalle bevande agrumate. La complessità raffinata delle trame letterarie. L’attitudine al filosofare capzioso che risolve nell’aforisma un pensiero saturo, spesso cifrato quanto enigmatico. Il pudore del cuore e il lirismo nostalgico dei sentimenti, stipati gelosamente nella segretezza del viso. Lo sdegno per lo Stato assente, la vocazione alle istituzioni delusa dalla coazione alle logiche mafiose, corporative, clientelari. Massimiliano Perrotta riassume nella sua persona i tratti identitari e culturali del nostro Sud, della Sicilia.

Porta la sua firma “Hammamet” (che ha debuttato il 25 novembre 2008 al Teatro Tordinona di Roma), rilettura autocritica (“da sinistra”) degli anni in cui cadde la prima repubblica, centrale la figura di Bettino Craxi. L’autore tenta un giudizio obiettivo dei fatti storici ormai sprovvisti di urgenza e decantati nel tempo trascorso. Propone un esame di coscienza in pubblico. Sottolinea la partecipazione popolare alle inchieste di Mani Pulite: «Era come se la presunzione d’innocenza fosse temporaneamente sospesa, le procure istruivano le indagini, le condanne venivano decretate sui giornali, sugli autobus, nei bar». Mettendo da parte le teorie complottistiche, continua: «La figura su cui principalmente si riversò l’odio collettivo fu quella di Craxi: perché di quella classe politica era il più autorevole rappresentante, perché fu l’unico a contrapporre al nostro furore un tentativo di difesa delle proprie ragioni». Accanito lettore di biografie, affascinato dal carisma del leader milanese di origine siciliana, il giovane regista tenta un giudizio equanime: «Una delle infamie di quegli anni fu trasformare la parola socialista in un insulto».

Sul podio della coscienza Perrotta elegge in un nobile primato la sua gente. Non solo Luigi Pirandello, Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Gesualdo Bufalino, Angelo Maria Ripellino, ma soprattutto i meno noti come Vincenzo Consolo, Stefano D’Arrigo, Sebastiano Addamo, Giuseppe Bonaviri. «C’è Tomasi di Lampedusa e c’è Leonardo Sciascia, c’è il fantastico e c’è il reale…un bel secolo insomma quello del Novecento siciliano. Un po’ per contatto con la materia, leggendo, un po’ per affinità, mi sono ritrovato dentro questo magma. Non si tratta di una scuola unica, ci sono diversi filoni, maestri e discepoli».
Il distacco antisentimentale connota uno sguardo dalla doppia lente, che permette nella sua produzione artistica sia una visione narrativa ferma, che fantastica, quasi epica.
«Ho avuto il privilegio di collaborare con Sebastiano Addamo, uno scrittore vicino per certi aspetti a Sciascia. Sono entrambi accomunati dallo stile secco e da un certo pessimismo: più esistenziale nel primo caso, più storico nel secondo. Sciascia ha vissuto la fine del fascismo e la speranza nella democrazia, che doveva cambiare le condizioni di vita del Mezzogiorno oppresso. Ma ne fu deluso. È in assoluto uno dei miei modelli per lo sguardo spietato, lucido, analitico, essenziale. Era ossessionato dal rispetto delle regole: lo spirito della costituzione (che considerava tradita), il processo giusto, il garantismo, le battaglie radicali. La sinistra gli ultimi anni della sua vita l’ha messo un po’ all’angolo per articoli come “I professionisti dell’antimafia”, in cui faceva un discorso paradossale, ma sensato. Mi affascina però anche il filone visionario, affabulatorio di Bonaviri e D’Arrigo».

Affettivamente legato ai nonni, quando Perrotta considera la sua infanzia e recupera il fanciullino pascoliano, riveste la memoria di emozionalità naïf, patrimonio spirituale che lo conduce a un tenue petrarchismo romantico.
«Sono nato a Mineo, che è un paesino dell’entroterra miticamente legato al raduno sull’altopiano di Camuti. Immaginiamo una specie di festival di Sanremo dei poeti dialettali, che si riunivano una volta l’anno attorno a una pietra che pare avesse un potere taumaturgico (secondo la leggenda, se le donne incinte vi si sedevano sopra, sarebbe nato loro un figlio poeta). Nell’Ottocento il più illustre nativo di Mineo è Luigi Capuana, nel Novecento Giuseppe Bonaviri a cui nel 2007 ho dedicato il documentario “Bonaviri ritratto”».
Nel rischio del campanilismo, seppur estetizzante, proprio non ci casca. Il regista trentenne affonda le radici nel sottosuolo stratificato archeologicamente rilevante della sua isola, un tempo crogiuolo di popoli, babele di idiomi. Ma poi, ramingo nelle pagine di tutta Europa, esule e nomade cerca approdo nel modernismo novecentesco di T. S. Eliot, Ezra Pound, Franz Kafka, James Joyce.

Vive una vita di lavoro e di studio a Roma, con la bussola orientata su Schopenhauer che, lapidario, così si esprimeva: «A parte poche eccezioni, al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese».
Ha scritto e diretto gli spettacoli "Gli specchi" (2006), "Hammamet" (2008), "Filosofi da bar" (2010); i corti teatrali "Matilde di Canossa" (2008), "Gocce" (2009), "Il mantello" (2011); i video “Expo”, “Bonaviri ritratto”, “Mineo”, “Sicilia di sabbia”.
Ha pubblicato "Cornelia Battistini o del fighettismo" (La Cantinella, 2006; traduzione francese: LC éditions, 2011), la versione teatrale del racconto "Fine di una giornata" di Sebastiano Addamo (La Cantinella, 2008), "Hammamet" (Sikeliana, 2010; anche in edicola con il Giornale di Sicilia).
“HAMMAMET”, IL SACRIFICIO GIUSTIZIALISTA


“Hammamet” di Massimiliano Perrotta è il dramma della sconfitta di un titano della scena politica, rifugiato in terra tunisina negli ultimi anni della sua vita, Bettino Craxi. Fu davvero uno scacco? Gianni Pennacchi lo chiama esilio.
E’ scoppiato lo scandalo Tangentopoli. Nelle aule giudiziarie le toghe sono impegnate a imputare gravi episodi di corruzione e concussione agli esponenti tutti della classe dirigente. La falla del sistema è il finanziamento illecito dei partiti. A Roma imperversa un giubilo apocalittico popolare misto giacobino: il 30 aprile 1993 muore simbolicamente Craxi, ucciso dalle beffe rabbiose della piazza, sotto una pioggia di monetine. La gazzarra mediatica rincorre e ripete la retorica inquisitiva dei tribunali, strombazza in breve la fine della prima Repubblica. Il rumore è ovunque.
Il giovane autore catanese, quietati gli sciacalli, fa ammenda. Segna l’accesso a uno spazio quasi oracolare in penombra: un recinto sacro in cui a rivelarsi è la verità umana del simulacro dileggiato.
Nell’introduzione al testo edito da Sikeliana, Pennacchi sottolinea come sia premura del teatro rendere giustizia e onore ai vinti: “Questo avviene dai tempi di Eschilo”. Possiamo quindi assimilare il regista siciliano a un poeta epico che descrive un mito eroico, ne interpreta il dolore e muove istanze morali, senza moralismo. Il suo “Prometeo incatenato” lotta per la civiltà ma  l’offerta del fuoco non viene premiata dal plauso finale, causa il risentimento di Zeus. Greco è l’impulso ad autodeterminarsi, a disegnare la vita secondo le proprie ambizioni, greca la tendenza universalizzante e greca la volontà di difendere la propria libertà interiore, come ci conferma Plutarco nel suo trattato sulla gioia: “Solo una piccola parte dell’uomo è esposta agli attacchi della tyche, ma della parte migliore siamo signori noi stessi. La tyche può toglierci denaro, fama, perfino la vita fisica, ma non è in suo potere renderci cattivi e vili, rapirci a noi stessi e privarci dei veri valori del nostro animo”.
Il segretario del PSI ha sofferto di manie complottistiche e dell’abbandono amarissimo da parte di alcuni dei suoi. All’incalzare dei giudici, non è stato affatto conciliante, ha ostentato la sublimità dell’eroe che non rinuncia alla sua superiorità sul fato. Conosciuta la sventura, si è difeso con il logos.
Nessuna beatificazione: il componimento apologetico che è argomento di questo incontro restituisce dignità dopo l’oltraggio al primo socialista che è riuscito a ottenere la presidenza del Consiglio.
Se tragicità è distruzione, tragica è la rovina di uno per il bene di tutti, tragica è stata la distruzione morale della persona di Craxi non più e non solo soggetto politico.
Sul palco Roberto Pensa dà voce alla meditazione sommessa, accompagnata da un efficace esercizio di sincerità e onestà intellettuale. Il registro tonale è quello della pacatezza. La scenografia minima sostiene quanto basta l’interpretazione attoriale affidata tutta alla parola. Chiama all’ascolto attento del testo che ha una qualità formale estetica indipendente rispetto alla performance. Il canto alternato con il corifeo è privo della reciprocità di domanda e risposta. La forma dialogica è annullata. La tragicità dell’esultanza orgiastica dei carnefici sul capro espiatorio è contenuta nell’antefatto, premessa del testamento spirituale che fluisce affidato alla traccia permanente di un registratore portatile.
Il riferimento a “L’ultimo nastro di Krapp” di Samuel Beckett è necessario. Le affinità tematiche ci sono, come pure le divergenze. I personaggi del dublinese sperimentano una crocifissione senza redenzione. Estragone, Clov sono tormentati da un impaccio al piede che rende l’andatura claudicante, altre volte può capitare che sia una montagna di sabbia a intrappolare il corpo del malcapitato nell’immobilità, fatto sta che non c’è scampo all’inettitudine. L’intellettualismo sofisticato aggrava l’impedimento, è la scaturigine del sarcasmo irridente, della buffoneria nera, dell’autoparodia clownesca. La frammentazione della scrittura drammaturgica corrisponde alla disintegrazione dell’io, il collasso nevrotico trattiene il boato. Deserto, desolazione, dissociazione, disperazione, agonie oniriche e agonie reali: un comune serbatoio di noia esistenziale e afflizione appartiene a Kafka, Pirandello, Ezra Pound, Pinter, Beckett, apparentati dalla percezione dell’assurdo.
A differenza di Krapp che riascolta alcune pagine di diario e trova un altro da sé, quindi non si riconosce, Craxi si ritrova. Seduto alla poltrona, con la sua giacca sahariana, ragionevolmente rende conto del suo operato. Le riflessioni si dipanano con chiarezza olimpica, il che equivale a una riconquistata coerenza, una riconquistata sensatezza, una riconquistata compiutezza. Si verifica un’adesione dell’io al sé, un passo in avanti verso l’agognata unità dell’essere.
In “Dante e l’aragosta” di Beckett, Belacqua prende lezione di italiano e discute con l’insegnante della pietà e della dannazione: “Perché non la devozione unita alla pietà anche quaggiù? Perché non la compassione insieme alla religiosità? Un po’ di compassione in mezzo alla pena del sacrificio, un po’ di compassione per poter rallegrarsi a dispetto della condanna”.
Ezra Pound chiude il 116° Canto con quello che sembra un appello alla grazia divina: “Carità talvolta io l’ebbi, non riesco a farla fluire. Un po’ di luce come un barlume ci riconduca allo splendore”.
E’ precisamente questo sentimento che ha indotto Perrotta a scrivere “Hammamet”.
Come i figli contestano i padri, a diciotto anni anche lui ha contestato Craxi (considerato per il tratto perentorio, decisionista, risoluto e accentratore il padre-padrone del PSI). Ma ha superato la fase del risentimento adolescenziale, si è identificato  nella figura del padre (in senso lato) e assumendone il punto di vista (sempre in senso lato) è diventato a sua volta padre: ha recuperato quel modello per essere lui stesso genitore del novum.

“FILOSOFI DA BAR”
Il pensiero speculativo, la marca esistenziale e la vena poetica si combinano con la levità naïf, che pure c’è nella sua produzione, stavolta predominante, fino a invertire di segno ogni possibile rilevanza significante. Nell’intermezzo coreutico (una vera e propria quota rosa questo balletto ideato ed eseguito da Barbara De Blasio) un personaggio piumato, in doppia veste di cameriera e musa, assiste ai soliloqui etilici di pensatori tautologici persi dentro il bicchiere. Il titolo dell’atto breve è appunto “Filosofi da bar” (2009) che con “Ginevra” (2010) compone un dittico.
“GINEVRA”, PERDERSI DENTRO UN BICCHIERE
Nei bar, nelle osterie, a ridosso delle fontane nelle piazze, a zonzo per strada spesso si fanno le migliori conversazioni. In “Ginevra” di Massimiliano Perrotta due signori seduti al tavolo di una bettola parlano del male del mondo. Non il perché del dolore, ma il come dell’esistenza, è questo il tema. Il dottor Coppola e il professor Caruso discettano sui destini dell’umanità con semplicità e delicatezza di tono. Ripropongono la secolare contesa tra Dio e gli scienziati sulla reggenza delle sorti. Nessuno dei due sembra essere credente. Entrambi interpretano un comune sentire che vorrebbe sconfiggere la morte. Uno amerebbe l’immediatezza della soluzione al problema, inclusa persino la possibilità di prolungare il migrare dei giorni fino all’estremo limite. L’altro dichiara la necessità delle lacrime da consolare più della consolazione stessa, quasi che a essere accontentati si perda qualcosa. Fideismo, scientismo, scetticismo, empirismo, a prevalere è il realismo magico. I due dotti a un certo punto vedono avvicinarsi Luciano, l’oste, vedovo ancora innamorato che propone di bere insieme un bicchiere. Il nome della moglie ritratta in foto (con la quale continua a monologare a fine serata come sempre) suggerisce un certo romanticismo cavalleresco, descrive la nostalgia dell’amore avuto e la speranza di un altrove metafisico in cui la persona intera possa ritrovare il suo stesso immutato amore per una donna che non c’è più. Rilevante nella disputa è il volontario aggiramento da parte del regista della dottrina della Chiesa, dogmi e così via, fatta salva la premessa che rimbomba all’inizio del corto, ossia la preghiera ambientale di Paolo VI che introduce al cuore dei ragionamenti: la risurrezione della carne e la vita eterna. In “Ginevra” la complessità ingenua sta nel proporre uno scambio di battute tra i convenuti, che però, omettendo di considerare le vicende di Cristo Gesù e del calice di ebbrezza che redime chi lo vuole, fanno i conti senza l’oste.
“IL MANTELLO”
Un uomo anziano, al centro dello spazio scenico, è interrotto nelle sue meditazioni da un giovane che irrompe nel suo antro e lo attraversa per poi uscirne. Assiso, ha un’eco da prototipo: se non un caravaggesco San Gerolamo, certo tende le mani alla tradizione iconografica degli eremiti nel deserto e, dato l’oculare barlume psicotico alla Hitchcock, anche alla collezione dei matti che l’archivio di celluloide fornisce: che si tratti dell’evoluzione dei ballerini squadristi di Kubrick ridotti all’unità del singolo? Il vecchio, si suppone saggio, offre il suo aiuto all’inatteso incursore e ricorda di averlo già introdotto in un clima da simposio, favorendogli la lettura del libro, si intuisce sapienziale. È tuttavia smentito dai modi sbrigativi e allertati del fuggiasco, che lasciato il suo paese non conosce la valle e si avventura da solo verso l’ignoto, sordo ai comandi. Massimiliano Perrotta nel “Mantello” sembra aver trattenuto un vago sentore degli psichismi isterici, di pirandelliana ascendenza, riconducibili ai fraseggi di Sebastiano Addamo che indaga l’umana ostinazione e il pervicace accanimento con cui taluni negano l’importanza delle apparenze o l’appropriatezza dei cognomi. L’aggressività di un unico scatto repentino da parte dell’uomo, vestito in penitenziale tenuta arancio, fa precipitare il tratto aulico del lessico e dà un’improvvisa accelerazione al tempo immoto e sostanzialmente remoto del corto teatrale. Il ragazzo fa per allontanarsi. Minata l’autorità patriarcale, con la disattenzione prima e l’evasione poi del discepolo, non si realizza un’importante condivisione. L’offerta del mantello, simbolicamente indicativo della necessità di premunirsi contro le intemperie, cade nel vuoto. L’apparizione finale di un limone, mondato in tempo reale, chiude l’atto. Con Roberto Pensa e Benedetto Cantarella, scritto e diretto da Perrotta, “Il mantello” (2011) è stato presentato al Tordinona nell’ambito dell’undicesima edizione di “Schegge d’Autore”. Direzione artistica di Renato Giordano, il festival della drammaturgia italiana contemporanea vanta, secondo le parole del presidente della giuria Franco Portone, una “dinamogena potenzialità di stimolare e attivare la coscienza critica dello spettatore, qualità che non è cosa né del cinema né della televisione”.

Ila di Melanila