“Città del deserto”
Diario libico
41. La via di Ghirza
[ Pagg. 50-51 ]
«Rimasi quasi turbato, perché veramente entro la linea blanda, rilassata dell’orizzonte in circolo non c’era lontananza e non c’era vicinanza: era come trovarsi sempre nel medesimo posto e, per spostarsi che si facesse, non cambiava. Un vento fresco, lungo, senza quasi respiro, rendeva l’aria leggera ancorché il sole fosse aspro. Io mi meravigliai di quel vento, e chiesi se era sempre così nel deserto. A poco a poco si sgretolava l’immagine casalinga che io mi ero fatto del deserto, come se non ci dovesse essere mai vento, e l’aria soffocante e immobile. Negli occhi mi restavano le dune profonde e maestose che il cinematografo ci ha abituato a considerare il deserto, e infatti, quando avevo attraversato l’Anatolia, nella Licaonia, e avevo visto i laghi salati e mi avevano assicurato che quello là era il deserto, io avevo dubitato. Non c’era sabbia, spuntava sempre qualche cespuglio e all’orizzonte si succedevano delle alture: infine, per quanto brutta, continuava la strada. Si aveva, allora, il senso di una terra spopolata che il disboscamento, quindi un intervento umano, aveva reso brulla, ma il deserto doveva essere altra cosa. Ora mi ci trovavo, ora non potevo più dubitarne; eppure continuavo a interrogare me stesso sul perché di quella accettazione del deserto, in forme così diverse da come l’avevo immaginato. D’altronde era avvenuto un distacco che poteva assomigliarsi a quando si coglie un fiore o un frutto dalla pianta. Rimane lo stesso fiore o lo stesso frutto, ma nulla al mondo lo potrà far riaderire al gambo tagliato. Ebbene io rimanevo lo stesso, sicuramente, ma quel vagare su un fondo brullo e sassoso, senza direzioni, con un orizzonte sempre spostato e sempre identico, aveva determinato come una cesura con la mia vita di poco prima. Tutto quello che nell’animo infantile era stato il mio disperato rimorso o il disperato anelito che qualcosa di accaduto non fosse accaduto, si trovava ora raggiunto con un’operazione indolore, senza spargimenti di lacrime o di sangue. Io mi sentivo tagliato fuori da me stesso, pur rimanendo me stesso: e come se il mio passato si fosse fermato alla strada dove questa si era arrestata. Su una pista ondeggiante, insicura, continuava la mia vita, ma questa vita era diventata ad un tratto leggera a portarsi, come se fosse stata svuotata di tutto il suo peso dall’interno. Non era gioia, quella, non era piacere: ma appunto un distacco lucido, senza passione e senza rimpianto. I miei affetti non erano morti, i miei desideri non erano sfumati, ma vorrei dire che mi sentivo accanto agli affetti e ai desideri, presso di essi, non dentro di essi. Non una distanza, ma una mancanza di continuità mi separava da loro. Sicché cosa restava di me, se non l’occhio pacato che guardava intorno senza essere attirato da nulla: che cosa restava, se non questo dilagare della mia vita come una superficie estesa e inestesa al tempo stesso, le cui dimensioni reali non venivano da altro rapporto che dal rapporto che io creavo, insistendo sul suolo. Io divenivo naturalmente, senza enfasi alcuna, il centro stesso dell’universo; e ogni posto dove mi posassi o mi spostassi automaticamente diveniva quel centro, ed io l’albero della vita. Come tutto ciò, con lucidità remissiva, si conciliasse a questa vita ridotta al solo pensiero che pensava se stesso, io non sapevo ancora spiegarmi, ma sentivo che l’avrei saputo; maturerebbe segretamente. Una rivelazione che non poteva rivelare nulla che già non sapessi, e tuttavia rivelazione. »
Cesare Brandi