L'ironia è dinamica

L'ironia è dinamica

lunedì 28 febbraio 2011

VOLANTINARE

Pensò che fosse venuto il momento di darsi da fare e si prestò al volantinaggio. La pubblicità è l’anima del commercio, lo sanno tutti. Contribuiva così a diffondere la rinomanza di aziende con regalistica promozionale, depliants, buoni sconto. Sarà, ma dopo neanche un’ora e mezza interruppe la distribuzione dei foglietti informativi a discapito del business, affascinata invero dalla stampa di vetrofanie adesive, con tecnica serigrafica e ottima resa cromatica, di cui appunto leggeva. La studentessa fantasticava sulle vetrofanie monofacciali e bifacciali. Sul lato non adesivo viene stampata l’immagine rovesciata. In genere il fondo è costituito da materiale plastico oscurante, un PVC dello spessore di pochi millimetri. Il tono di bianco che separa le bifacciali deve impedire che le immagini si vedano in trasparenza. Per la resa cromatica si utilizzano inchiostri speciali.
Lidia amava le vetrate della cattedrale di Notre-Dame de Chartres e si incuriosiva di tutto ciò che costituiva un lontanissimo, anche improbabile, raccordo al cloisonné. Si baloccava con il concetto di cloison. Si struggeva persino all’idea delle celle monacali. Ricordava che su un supporto in metallo malleabile, prevalentemente rame con i bordi rafforzati in bronzo, veniva adagiato l’impasto di sabbia. La pasta vitrea fusa, applicata a caldo, detta “fritta”, di colore prevalentemente blu o verde, veniva compressa nella cella, esposta a cottura in un piccolo forno d’argilla, detto “muffola”. Levigata accuratamente, la patina traslucida del prodotto finito mostrava uno smalto felice, ben tenuto e catturato nella sua struttura.
Avrebbe voluto anche lei sentirsi incastonata e trattenuta per sempre, custodita entro confini amici.
Tornata nel suo appartamento, scrisse una fiaba, poi un’altra, e chissà quante ne avrebbe ancora scritte.

Felinfiaba
C’era una volta Formina, abitava in un giardino circondato da alte siepi. Il cielo era il tetto sulla sua testa, l’erba verde il tappeto per i suoi piedi nudi. La copriva di notte un intreccio di violette. La rugiada in una ciotolina la dissetava all’alba. Alberi da frutto la riparavano dal vento. A mezzogiorno mangiava le mele dei rami che, talmente carichi, poggiavano le foglie fino a terra, e non appena alleggeriti dei pomi si risollevavano in alto come fionde (gli uccelli appollaiati erano sempre un po’ scombussolati per il carosello all’ora dei pasti!).
Formina Formina chi vedo io prima? Nel riflesso del laghetto è tuo o mio l’aspetto? Sei per me gioia e diletto? O sei per me lacrime e dispetto?
Tre gatti erano la sua famiglia. Siccome la fanciullina aveva i baffi a torciglione e una lunga coda da procione aveva il sospetto di essere sorella dei felini. Ma il viso che sembrava uscito dalla bottega di un ceramista e i biondi riccioli la inducevano a ritenersi appartenente al genere umano. Le volevano bene Fauna e Flora. L’acqua gorgogliava in esultanza quando passeggiava nei dintorni di fiumi e fiumiciattoli. Le api le offrivano il miele, anche se il ronzio le faceva perdere l’equilibrio e roteava per un po’ fino a fermarsi. Le coccinelle le auguravano buona giornata ma la congedavano perplesse perché avrebbero preferito decorarle il décolleté facendo il girotondo intorno a testa e spalle atteggiandosi a parure di rubini: "Ma che ragazza austera!", borbottavano svolazzando. Le pecorelle facendosi coraggio le offrivano un po’ di lana: "Certo non è di ermellino, ma puoi accettare lo stesso, ti terrà caldo!". Dopo la buonanotte, i lupi andavano per i campi a ululare al chiar di luna distanti dal suo giaciglio, giusto per farle una cortesia e non disturbare il suo sonno.
Il guaio di Formina era questo qua: chiunque la incontrasse guardandola negli occhi non vedeva proprio lei, ma trovava l’immagine sua riflessa e raddoppiata come in uno specchio. Cioè a dire: il ladro di polli vedeva in lei un ladro di polli, la fata cattiva vedeva in lei una fata cattiva, il porcellino bugiardello vedeva in lei un porcellino bugiardello. Chiunque parlasse con lei, parlava con se stesso. Chiunque la odiasse, odiava se stesso. Chiunque la amasse, amava se stesso.
Come trovare scampo a questo destino infausto?
La fanciulla si sentiva attraversata dai venti. Avrebbe voluto avere una linea di contorno ben marcata per sapere chi davvero fosse e fin dove arrivava: alta, bassa, magra, grassa e così via. Un bel disegno che delineasse la sua figura. Ci voleva un pittore.
Cammina cammina si imbatté in un musico affamato e prima ancora di avvicinarsi per fargli una domanda ella lanciò un cesto pieno di ogni bendidio al poveraccio, che afferrò prontamente e si saziò.
Incontrò poi una vecchina curva e prima ancora di avvicinarsi per farle una domanda lanciò un cappottino di velluto, l’anziana signora afferrò prontamente e ringraziò.
Vide un giullare col berretto a sonagli poco distante, ebbe paura e scappò. Il buffone le corse dietro, la raggiunse e disse: "Cara fanciulla, non importa aver nozione certa di chi siamo, come siamo, se davvero siamo. Formina è il tuo nome e, vuoi o non vuoi, risponde alla vocazione che hai. Sagomare l’impasto di pasta frolla per i biscotti da infornare o la sabbia per i castelli in riva al mare, non è dato a te sapere!".
Formina Formina chi vedo io prima? Nel riflesso del laghetto è tuo o mio l’aspetto? Sei per me gioia e diletto? O sei per me lacrime e dispetto?
Ella digiunò, divenne blu per il freddo, e volle tornare al suo giardino.
Ingmar, Ingrid, Ingeborg, i tre gatti, la aspettavano a casa un pochino allarmati. Quando la videro, subito le andarono incontro, con quell’affettuoso suono sommesso che sono le fusa. Ingeborg si adagiò su un fianco e permise a Formina di accoccolarsi ben bene. Ingrid volle riscaldarle i piedini lividi e Ingmar, il felino più confuso o più buono (si credeva una mamma chioccia!), si accovacciò e la coprì aspettando che i malesseri guarissero con la covata.
Il giorno dopo Formina non riuscì più a udire la filastrocca, finalmente libera!
Ila di Melanila

Ila di Melanila

Melanila è il blog di due persone.
Posso parlare di Ila di Melanila.
Mi chiamo Ilaria Mulè e amo scrivere.
Sono laureata di Lettere. Mi occupo di recensionistica teatrale, scrivo in qualità di giornalista pubblicista su un quotidiano di Roma.

I racconti pubblicati su Melanila sono il frutto del mio estro. Spero - sempre che qualcuno legga questo blog - che trovino riscontro positivo. Mi diletto nel comporre anche filastrocche e fiabe.

Se per sbaglio vi trovate qui a leggere, lasciate un commento, senza insulti per favore!

Un caro saluto ovunque voi siate (ci siete non è vero?)!

Ilaria

mercoledì 23 febbraio 2011

Vintage in via Lambrate

C'è un piccolo negozio vicino a dove lavoro, ha una insegna anomala "Barbiere", dentro è piano di tesori: vestiti e cappelli dagli anni '40 a '80 e gioielli, scarpe, cinture, tutto ha una storia. molti abiti sono usati, ma il loro fascino è indiscusso. sembra di entrare in un'altra dimensione, indietro nel tempo.
non esiste omologazione ma solo esclusività. Dentro quei vestiti senti di appartenere ad un'epoca in cui l'abito vestiva davvero, con originalità, esaltando la femminilità in maniera pura.

Ma non è tutto. E' possibile trovare anche pezzi unici di marca, Gucci, Prada, Chanel, Bottega Veneta e molto altro ancora.
Il negozio si chiama 20143Lambrate, questo è il blog http://20134lambrate.blogspot.com/

Nella foto il mio ultimo acquisto.

venerdì 18 febbraio 2011

Lidia, Emma, due sorelle

Che non sia come un dagherrotipo mia sorella? Elabora con lentezza le sue immagini, bisogna aspettare, pensava. “Cerchi una dimensione ultraterrena? Aspiri a una vita mistica? Dove sei quando sei altrove? Stai nel tuo corpo o no? Perché non vivi nella tua stanza, voglio dire, perché non ordini non arredi non occupi il tuo spazio? Ami davvero qualcuno? Hai ambizioni professionali? Riesci a desiderare, a progettare? Insomma cosa vuoi?”, le urlò contro Emma.
Quando sentì le domande a raffica, Lidia sorrise. Alcune volte si accigliava, distoglieva il viso dallo sguardo inquisitore, altre volte sprofondava nell’abisso, il silenzio interiore le ottundeva i sensi, mancavano le parole. Semplicemente voleva abdicare, andare in esilio.
L’anarchia dadaista è il canto per via dei menestrelli del suo reame, un cosmo perfettamente assurdo, è andata là, ma tornerà, torna sempre.
Le circumnavigazioni del mondo sommerso nutrivano l’estro creativo, non la sua vita. I disegni, gli acquerelli, le fantasticherie erano il suo svago.

Papaverina
Le foreste, dorate per l’autunno, vestono di velluto turchese i tronchi muschiati. I rami intrecciati coprono come ventagli le casette fatte di pane. Il grano e le cicale portano l’estate in un tempo incantato, in cui la primavera è intimidita dall’inverno, folgorata dalle accensioni esplosive dei girasoli, fiamme roteanti nel cielo. Le primule in fiore colorano la neve. I laghetti cristallizzati dalle temperature polari sono bloccati in una fissità remota. Vi si adagiano i ranuncoli d’acqua. La morsa del gelo offende, nella stilizzazione della brina, i tulipani selvatici. Costringe in cubetti di ghiaccio le corolle degli anemoni giapponesi. Le giraffe nascondono tra le zampe pecorelle intirizzite. Gli elefanti guidano le renne ai terreni di abbeveraggio.
“Quando farai il prossimo esame? Abbiamo brindato mesi fa per l’esercitazione di linguistica generale. Continua allora! Mamma vorrebbe che ti laureassi a breve”, le ricordava sempre Emma.
Papaverina era una bimbetta sempre assonnata, non le riusciva di star sveglia se non per qualche ora. A mezzogiorno faceva una passeggiata in giardino, leggeva la pagina di un libro se c’erano le figure, poi dormiva fino a sera. Mangiava la zuppa davanti al focolare, ascoltava il crepitio del fuoco, poi andava a nanna. Si svegliava quando il sole era già alto, così di settimana in settimana, di mese in mese, di anno in anno. Le ninne le ristoravano l’animo, ma non le riusciva di stare in piedi, non era più abituata. Le gambette non reggevano il peso del suo corpo, bassina e paperella com’era. Papà e mamma non sapevano come fare a tenerla sveglia. Chiamarono  allora musicisti e cantastorie, che però le favorivano il sonno. Chiamarono cuochi, ma le torte e i bignè appesantivano il pancino e giù a dormire. Chiamarono artisti circensi, ma appiccarono fuoco tutto intorno e il fumo la fece appisolare. Finché non venne a trovarla, senza essere invitato, un giullare burlone, che la fece ridere e ridere. La fanciullina si destò completamente. Finalmente! Che bello il buonumore!  
Questa è la piccola storia che Lidia stava formulando nella sua mente, mentre si dedicava agli studi della teoria grammaticale formale.

sabato 5 febbraio 2011

Aiuto! Sono rimasta al 1980!

Ossessione: fermenti culturali degli anni 70, High School of Performing Arts, Manhattan, New York.
Film: “Saranno famosi”, regia di Alan Parker (1980).
 (Grazie Alan Parker!)
Rischio: tenace disadattamento.
So ballare? No.
So cantare? No.
Cura: buonsenso ...
: )



http://www.youtube.com/watch?v=aSd-VsW_bxU

http://www.cinemovies.fr/bande-annonce-1118-30077.html

ALFABETI DEL CUORE

DUE DONNE UN UOMO

Florence aveva trentasei anni, un’età che si presta a facili malinconie quanto a progetti arditi di riscatto, una vita che non si è ancora del tutto fatta avanti, pesante di ricordi insidiosi, desideri inespressi, felicità trattenute. Con i gomiti pressati su un vecchio tavolo di noce si godeva il profumo del caffè dilagare nelle narici, andandosi a depositare nella memoria olfattiva, raccordandosi alle mille promesse di felicità che si affacciavano ogni mattina complice la distensione della notte, nell’atmosfera di lento risveglio in cucina. Il tempo di una doccia, acqua gelata sulla pelle tonica e ogni sentore di calore umano scompariva nel blu livido delle labbra.
(Braccia conserte, dolore rimosso, vetro incrinato, questo era lei, sguardo spento, ventre piatto, mente assente).
Quella mattina sarebbe stata inconfondibile nell’infinita serie di mattine intercambiabili, aspettava l’arrivo del fratello Antoine, che sentiva suo più di se stessa. Quando parlavano, era la voce bassa di Antoine a scandire il silenzio, il suo respiro calmo a ritmare le parole, il suo umore incerto a condizionare le tonalità del discorso. Le emozioni affioranti sul suo viso erano, per Florence, le uniche a avere diritto di esistenza. Quel giorno, non sarebbe giunto a lei da solo. La missiva che annunciava l’evento conteneva un paio di foto che, disposte sul tavolo rosicchiato dalle tarme, lo ritraevano in compagnia di una ragazza sorridente, abbarbicata al suo corpo come edera, generosa di effusioni e di sguardi incuranti dell’obiettivo.
Nell’ingresso ampio della casa al piano terra, con le finestre aperte su un piccolo giardino di città, Anja, questo il nome della fidanzata di Antoine, le era sembrata incerta, timorosa, irrigidita accanto a lui. Osservava. Divorava con gli occhi la carta da parati, il mobilio, i tappeti, attenta a un qualunque indice di personalità che potesse rivelarle chi fosse a ospitarla. La mente indagava, scrutava, isolava, associava, mentre il corpo si rivelava goffo, impacciato, costretto a piccoli gesti che non sentiva - porgere la mano per il saluto, togliere il soprabito - perché la volontà era tutta intenta a elaborare i dati. La sensualità dell’abbraccio, nel verde puntinato di papaveri della campagna toscana, immortalato nel ritratto, sembrava dissolversi, perdere colore, fino a scomparire dalla memoria visiva e ridursi a una posa perfettamente ordinaria. A suo agio nella tunica di seta azzurra che lasciava scoperti i piedi nudi nei sandali, Florence ne ricavò un’insolita allegria. Ostinatamente si domandava se il rancore le  lasciasse scampo. L’uomo con cui aveva vissuto per cinque anni (l’ex marito) immise nel loro inesperto ménage ingredienti tossici, piccoli quantitativi di veleno. Smussato da una straordinaria sintonia intellettuale, il rischio sempre incombente di sopraffazione assunse la forma di una magnifica sfida tra i sessi. Il sogno di un gioco alla pari divenne ricerca di una indefessa accentuazione delle differenze di genere, lotta per una perfetta equivalenza di risorse, degenerò in ritorsioni ignobili. Il risultato dell’edizione aggiornata del peccato di Adamo e Eva fu una spontaneità interdetta. Il desiderio d’amore era qualcosa che sentiva, ma non aveva più il coraggio di verbalizzare, di pensare senza imbarazzo. L’emozione non aveva il tempo di radicarsi nel suo corpo, le faceva socchiudere le palpebre ma rimaneva nelle orbite oculari, riposta in una segretissima dimensione mentale, senza potersi diffondere e girare nel sangue. Riusciva a percepirsi come soggetto pensante, come coscienza vigile, ma non più come pelle sensibile. I ricordi di un erotismo libero si accompagnavano a inibizioni drammatiche. Solo una gioia puerile la animava di tanto in tanto. In un arrogante mondo di risposte e di sentimenti inequivocabili, si sentiva perduta. Quando il panico la chiudeva in una morsa e la opprimeva, decideva per l’immobilità totale, in un attimo era il blocco, l’interruzione. Si adagiava poi su un fianco, avvicinava le ginocchia alla fronte in posizione fetale e il tempo diventava un ricordo, assopito nel sonno. Dormire le giovava perché, senza bisogno di alterazioni chimico-farmaceutiche, si allontanava da oneri e incarichi gravosi, dalla fame e dalla sete, come da ogni consapevolezza. Sfuggita alle contingenze di ogni tipo tra le coperte, nella notte, nascosta a sé, si svegliava alleggerita, felice dopo ogni azzeramento, pronta a iniziare la giornata come fosse una nuova esistenza. A incuterle timore era la fidanzata del fratello. Temeva di passare in second’ordine, del resto era giusto così … Antoine non era mai stato completamente indipendente. Il viaggio a Budapest per Capodanno doveva celebrare un cordone ombelicale nuovamente tagliato. E così fu: conobbe Anja, attrice di teatro.
Antoine desiderava che le due donne si conoscessero. Individualità distinte, diversi temperamenti, entrambe indispensabili, con ruoli diversi e in conflitto, a volte le odiava, ma poi odiava anche se stesso. Anja gli faceva l’effetto di un mattone caldo sotto la mano, uno di quelli rossi che al sole brillano di un pulviscolo argenteo-dorato nascosto nei pori. Ogni volta che le prendeva le mani riceveva una stretta che l’avrebbe tenuto fermo e felice per secoli, tanto era sicura, ma non durava più di qualche attimo. Un’altra immagine che gli suggeriva era l’agilità di un’anguilla, che inseguita non si lascia afferrare, che a ogni costrizione oppone una violenta scossa di tutte le membra. E fango negli occhi del predatore. La sorella Flo era un’ametista, una pietra preziosa che protegge con i bagliori, che cristallizza in sé parole.
Anja pensava che Florence avesse la solidità di una roccia che volesse assorbire il tempo. Non le sembrava serena né conciliata, lontana dalla realizzazione che aveva cercato dopo la crisi del suo matrimonio. Del Tibet rimanevano ampi drappi, i grani ai polsi per pregare erano di fatto semplici braccialetti. L’irata insoddisfazione serpeggiante, celata, non sfuggiva a lei, Anja. Si stupiva che all’inquietudine non seguissero risoluzioni, inversioni di rotta. Era capitato anche a lei di non riuscire più a fare-volere-sentire, ma la paura di morirne era stata più forte della tentazione del fermo-immagine. Per non farsi intrappolare nelle maglie strette delle altrui menti ortodosse e dispotiche si abbandonò all’esuberanza vitale delle compagnie di giro. Metteva in pratica un amore di leggerezza che la arricchiva di ambiguità sibillina, facile a sciogliersi in un sorriso. Non rifuggiva oscillazioni ondivaghe di medusa agile, pronta a irritare chiunque non rispettasse la sua danza. Viveva sotto un velo trasparente, irrorato di ossigeno, pronto a cadere giù, come tela grezza, su un addio.

JAMES JOYCE CI PARLA ANCORA, LE SUE PAGINE DA LEGGERE E RILEGGERE

COMMENTO A “UNA PICCOLA NUVOLA” DI JOYCE
Racconto inserito tra gli altri racconti, che tutti insieme compongono un mosaico modernista raffigurante la gente di Dublino, “Una piccola nuvola” fa onore a un paio d’occhi, quelli di Joyce, piantati dentro l’umanità. Siamo al cospetto di un particolare tipo di sguardo d’autore, ineffabilmente imparziale e partecipe, legato ai sensi ma anche piombato nella coscienza. Il ritratto della società irlandese, secondo un vagabondare ‘surrealista’ per cui l’inconscio affiora e altera le fattezze solite, sembianze e ambienti, oscilla tra il figurativo e l’astratto. Da ciò che vediamo, un ‘vestito di tweed di ottimo taglio’ e da ciò che testimonia l’udito, un ‘accento impeccabile’, passiamo ad avvertire l’energia psichica di Gallaher, un uomo di mondo salutato dal successo. L’amico che gli aveva augurato buona fortuna, il personaggio citato sin dalle primissime righe iniziali, di cui sappiamo il nome solo dopo l’incipit che tratteggia entrambi, lo conosciamo come il piccolo Chandler. E ci addentriamo nei suoi pensieri che ce lo mostrano subito come emotivo, proteso all’incontro con il depositario delle molte qualità grazie alle quali si è distinto nella London Press Ignatius Gallaher. La descrizione fisica arriva subito dopo: ‘manine bianche’, ‘costituzione esile’, ‘voce pacata’, ‘maniere compite’ per Chandler. Lo schema è quello del contrasto: Gallaher e il piccolo Chandler non possono essere più diversi, rappresentano una netta scissione, due opposti modi di concepire l’esistenza e quindi di vivere. L’inchiostro della penna trattiene nella pagina la lenta formazione di un’immagine, che afferisce sia al visibile sia all’invisibile, prima la fisionomia poi le battute del dialogo. I due si confrontano sulle esperienze fatte, Parigi e il Moulin Rouge per l’uno, il matrimonio e un figlio per l’altro. Nel frattempo un’avvincente gara fatta di bicchierate, a suon di whisky, chiama anche il duello sul valore, sull’esercizio della virilità, tra uomini pare sia un luogo deputato dello stare tra amici. La scelta dicotomica torna nella ripartizione stessa del racconto che comprende una prima parte, l’incontro dopo otto anni, e il ritorno a casa del piccolo Chandler che nella sua mente è al cospetto di un’amara verità. Capisce che la portata dei suoi sentimenti non è completamente espressa. La moglie non sa quanto lirismo egli nasconda dentro di sé, non perde tempo infatti a rimproverarlo aspramente per averlo trovato col bebè singhiozzante al suo rientro dalle compere, senza considerare  che lui, il papà, non aveva fatto nulla per causare il pianto.
Se Joyce è i suoi occhi, è allo stesso modo l’ascolto attento, il cantuccio silenzioso che ha scelto per nascondersi e trovare riparo. Pecca probabilmente nel voler rivaleggiare con lo stesso Dio, così intento a non pendere per l’uno o per l’altro, perché tutti capisce e da tutti si distanzia. L’aridità del cuore è il tema comune che riguarda i tre: Gallaher, il piccolo Chandler e la consorte. Di ciò Joyce ha profonda compassione.
Il silenzio è il quarto personaggio (infante escluso).

giovedì 3 febbraio 2011

SHAKESPEARE … E’ CULTURA DELLO SBALLO?


PER OFELIA

Ofelia,
sei ferma sul limite,
nel limbo che separa ma non concede.
Sei sposa vergine,
che non sa aspra l’esperienza.
Cauta sulla soglia di Amore,
non ne conosci ancora la condanna.
Stanca e furtiva contro Privazione,
cadi nell’orrore del possibile.
Non hai la corazza dell’Amazzone,
che è orgoglio consapevole di dea temibile senza memoria di sangue fertile.
Superi nuda l’accesso negato.
Estasi acerba tradita, anneghi nel gorgo di un sogno avvilito,
anneghi in un delirio di grida mute.
Ricordi latrato antico di cane.
Per te,
il divenire indifferente di un destino che tinge a lutto.
Corolla sfatta nell’acqua,
ora sei Regina.                             

L’ARTE DELLA FUGA … E’ CULTURA DELLO SBALLO?


PICCOLO UOMO BAROCCO

Plumbeo il peso,
argenteo il moto.
Il tuo è un colore fosco di antracite,
con barlumi turchini, nervature d’inchiostro di penna d’oca.
Hai una gentilezza
che sa di cipria zuccherina.

martedì 1 febbraio 2011

Le melanzane della sera

Mi piace cucinare. Mi piace cucinare per qualcuno, pensando a come gusterà la mia ricetta. questa sera mi diletto in una cenetta e lo farò con tutte le dovute accortezze. Preparo qualcosa che mi piace, di caldo per rigenerarsi dopo la giornata di oggi, di gustoso per insaporire una giornata senza sapore, fatto con amore per trasferirlo a chi assaggerà il mio piatto. 

Metto su una bella musica che mi aiuta a creare. 
(http://www.youtube.com/watch?v=O_BRlaei-Us) Tra poco la cucina sarà piena di cose da lavare, dopo penserò anche a quello... ma non adesso. 

Accendo il forno che riscalda questa fredda cucina, inizia a diffondersi un bel profumo. Il profumo mi porta così tanto indietro. Indietro alla finestra di un'cucina, abitata tanti anni fa, quando sembrava di essere in un gineceo! quanto tempo è passato, e mi rendo conto che molti dei ricordi legati alla condivisione sono legati proprio al cibo. 
Davanti al cibo possiamo gustare, assaporare, amare la sensazione, abbandonarci a un piatto, guardare negli occhi chi abbiamo davanti o guardare il piatto per non farlo. 

C'è un buon profumo. Il piatto è pronto. Ha un buon sapore e un buon aspetto. Speriamo piaccia a chi lo mangerà!

Questa la ricetta:
(per due persone)
1 melanzana
1 uovo
2 fette di prosciutto cotto
2 sottilette
pangrattato, prezzemolo, sale quanto basta

Grigliate le melanzane, dopo create uno strato di 1 melanzana, mezza fetta di prosciutto, mezza di sottiletta, aggiungere un'altra melanzana sopra.
Disponete tutto in una teglia. Riversate l'uovo, aggiungete pangrattato e prezzemolo.