Che non sia come un dagherrotipo mia sorella? Elabora con lentezza le sue immagini, bisogna aspettare, pensava. “Cerchi una dimensione ultraterrena? Aspiri a una vita mistica? Dove sei quando sei altrove? Stai nel tuo corpo o no? Perché non vivi nella tua stanza, voglio dire, perché non ordini non arredi non occupi il tuo spazio? Ami davvero qualcuno? Hai ambizioni professionali? Riesci a desiderare, a progettare? Insomma cosa vuoi?”, le urlò contro Emma.
Quando sentì le domande a raffica, Lidia sorrise. Alcune volte si accigliava, distoglieva il viso dallo sguardo inquisitore, altre volte sprofondava nell’abisso, il silenzio interiore le ottundeva i sensi, mancavano le parole. Semplicemente voleva abdicare, andare in esilio.
L’anarchia dadaista è il canto per via dei menestrelli del suo reame, un cosmo perfettamente assurdo, è andata là, ma tornerà, torna sempre.
Le circumnavigazioni del mondo sommerso nutrivano l’estro creativo, non la sua vita. I disegni, gli acquerelli, le fantasticherie erano il suo svago.
Papaverina
Le foreste, dorate per l’autunno, vestono di velluto turchese i tronchi muschiati. I rami intrecciati coprono come ventagli le casette fatte di pane. Il grano e le cicale portano l’estate in un tempo incantato, in cui la primavera è intimidita dall’inverno, folgorata dalle accensioni esplosive dei girasoli, fiamme roteanti nel cielo. Le primule in fiore colorano la neve. I laghetti cristallizzati dalle temperature polari sono bloccati in una fissità remota. Vi si adagiano i ranuncoli d’acqua. La morsa del gelo offende, nella stilizzazione della brina, i tulipani selvatici. Costringe in cubetti di ghiaccio le corolle degli anemoni giapponesi. Le giraffe nascondono tra le zampe pecorelle intirizzite. Gli elefanti guidano le renne ai terreni di abbeveraggio. “Quando farai il prossimo esame? Abbiamo brindato mesi fa per l’esercitazione di linguistica generale. Continua allora! Mamma vorrebbe che ti laureassi a breve”, le ricordava sempre Emma.
Papaverina era una bimbetta sempre assonnata, non le riusciva di star sveglia se non per qualche ora. A mezzogiorno faceva una passeggiata in giardino, leggeva la pagina di un libro se c’erano le figure, poi dormiva fino a sera. Mangiava la zuppa davanti al focolare, ascoltava il crepitio del fuoco, poi andava a nanna. Si svegliava quando il sole era già alto, così di settimana in settimana, di mese in mese, di anno in anno. Le ninne le ristoravano l’animo, ma non le riusciva di stare in piedi, non era più abituata. Le gambette non reggevano il peso del suo corpo, bassina e paperella com’era. Papà e mamma non sapevano come fare a tenerla sveglia. Chiamarono allora musicisti e cantastorie, che però le favorivano il sonno. Chiamarono cuochi, ma le torte e i bignè appesantivano il pancino e giù a dormire. Chiamarono artisti circensi, ma appiccarono fuoco tutto intorno e il fumo la fece appisolare. Finché non venne a trovarla, senza essere invitato, un giullare burlone, che la fece ridere e ridere. La fanciullina si destò completamente. Finalmente! Che bello il buonumore!
Questa è la piccola storia che Lidia stava formulando nella sua mente, mentre si dedicava agli studi della teoria grammaticale formale.
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