L'ironia è dinamica

L'ironia è dinamica

mercoledì 20 luglio 2011

Teatro dell’Opera, “La Bohème”

Il vanto bohémien si svela sin dall’incipit. Le necessità materiali incombono e Rodolfo si spende in un delirio onnipotente. Sacrifica le pagine del suo dramma affinché arda nel camino. In una combustione dionisiaca che mitighi il rigore invernale, l’ebbrezza dello spirito annienta lo scartafaccio senza ucciderne il lirismo. La vita frugale esalta la voluttà dell’artista, che come crea, così distrugge. Dipinto da Marcello e sfuggito alle fiamme, “Il Passaggio del Mar Rosso” celebra l’abbandono dello status servile che determinati convenzionalismi borghesi impongono. Detestabile l’asservimento, vivere di stenti è meglio che prosperare, se a preferirsi è l’andamento incerto e dinamico di una sorte fluviale che lambisce le costituite solidità sociali, optando per le piattaforme precarie di neolitica memoria. Ben accolta è la provvidenza di cibi, bottiglie di vino, sigari e legna - due garzoni irrompono nella soffitta portando le provviste - cui fa seguito la visita di Mimì. La robusta componente sinfonica sostiene gli amori alla ‘mordi e fuggi’, intrecciandosi la passione carnale e quella esistenziale. Le partiture vocali dei quattro intellettuali sono agili fraseggi che interpolandosi lievemente nella struttura aperta della conversazione producono un’armonia mutevole, “atmosferica”. Sotto i cieli bigi di Parigi, dalla poetica delle piccole cose alla vivida brillantezza delle tinte tra i tavolini del Caffè Momus, fino al mélo, le continue variazioni di tono tratteggiano la labile interazione conviviale di felicità impressionista. Il gelo degli interventi della madamigella tisica precipitano l’ensemble nella cupezza verista. Tutto esaurito al Teatro dell’Opera di Roma, “La Bohème” rinnova il successo storico di Giacomo Puccini nell’attualità magistrale della regia di Marco Gandini, della direzione di James Conlon, dell’esecuzione dei tenori Ramòn Vargas e Stefano Secco e soprano Hibla Gerzmava e Carmela Remigio.


“La Bohème”
Musica di Giacomo Puccini

Opera in quattro atti

Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa

16 - 22 Giugno 2011
Teatro dell’Opera di Roma


Ila di Melanila

martedì 5 luglio 2011

bɔemjɛ̃


Chagall.Il mondo sottosopra

“Mi tuffo nei miei pensieri, volo sopra il mondo”, Chagall è l’artista della confluenza. Canta il tema dell’incontro. In un registro surrealista campeggiano accensioni arancio e sprazzi di rosso e verde. Il cuore magmatico della terra, la visione di una Parigi notturna contrassegnata dal reticolato metallico della Tour Eiffel che si staglia delicato su un monocromo blu, le sue tele sono erranza e approdo. Le case e il tempio di Vitebsk designano la sede comune abitata dai custodi dei rotoli della Torah, dagli artisti del circo, dai rivoluzionari bolscevichi, stanziali e in viaggio. Le tappe del migrare pellegrino, la partenza, l’esodo, l’arrivo, appartengono a un unico spazio culminante e trionfante, in cui il sentimento amoroso annulla la forza di gravità, permette una levitazione sponsale, testimonia la rivoluzione, rivela la salvezza in una croce. Esultanza festosa della vittoria liberante, aria, acqua, terra, fuoco, i quattro  elementi compartecipi della stessa dimensione onirica, inclusioni allegoriche di animali, capre e uccelli dalla forte pregnanza simbolica, ricerca ansiosa del rifugio, raduno visionario, il realismo magico è la risposta alle compartizioni gerarchicamente predisposte che insistono sulla negazione. Non allineato con la Russia imperiale né con la Russia dei Soviet, non assimilabile al naturalismo, al suprematismo o al cubismo, ebreo bohémien e cosmopolita, Chagall celebra la sublimazione della materia, l’intimità del cuore intrattenuto nel dialogo, l’umanità dei tempi ultimi.

22 Dicembre 2010 - 27 Marzo 2011
Mostra Museo dell’Ara Pacis

Ila di Melanila

mercoledì 29 giugno 2011

VINICIO CAPOSSELA, CANTORE


“MARINAI, PROFET E BALENE”

Sciamano, taumaturgo, aedo, satiro, Vinicio Capossela canta il mito. Poeta del naufragio scongiurato, getta le reti sul mare rapsodico delle sonorità, le più varie e desuete. Tentato Ulisse, sferzato Giobbe, novello Davide contro Golia, il vocalist è impegnato nel duello con l’eccedenza insieme al Coro degli Apocrifi. Edipo in dialogo con l’oracolo, capitan Achab armato contro il Leviatano, Pinocchio nel ventre del cetaceo, il menestrello della procella narra la fiaba della mostruosa fascinazione. Astro che offende pianeti e soli, biancore superlativo che fa impallidire i lumi, detestabile quanto la misura della sfida ingaggiata per spegnere l’accecante bagliore, la minaccia albina percuote balenando, sovrasta in grandezza, è un parossismo. Bacino d’acqua per Narciso, offre speculare il riflesso. Vestito di peli di cammello l’asceta capitano reintroduce il monito antico, ripropone il segno di Giona, precursore del Messia. Antonis Xylouris, lo “Zeus con la lira”, leggenda vivente della musica cretese, fa risuonare stranianti echi sottomarini. Il Pequod di Capossela diviene battello ebbro sui flutti. Poemetto musicale che offre un viaggio visionario, lavoro concertistico che dà lustro alla festa danzante, progetto speciale con la “ciurma”, il Coro degli Apocrifi e l'Ensemble Cretese, “Marinai, Profeti e Balene” pizzica l’inconscio e la fine trova il suo inizio. Per chi volesse imbarcarsi l’appuntamento è domenica 31 luglio, Cavea dell’Auditorium ore 21. Info: www.auditorium.com.
Ila di Melanila

martedì 28 giugno 2011

LUDOVICA E GUGLIELMO, INTERLOCUTORI


GUGLIELMIADI 7.
SIPARIETTO
“Sono un monocromo saturo”.
“Ludo, mi siedo”.
“Quando sono felice la mia anima rasenta la compiutezza e la tenuità di un acquerello. I colori pastello si sciolgono in acqua, diluiti viaggiano fluidi e trovano casa nella carta senza esitazioni e pentimenti”.
“Certo!”.
“Gouache! Quando sono triste le tempere si addensano e si appesantiscono con la biacca, miscelandosi ulteriormente fino all’opacità senza respiro della consistenza asciutta di una pittura crepata”.
“Un bicchiere d’acqua fresca?”.
“Sono a posto, grazie”.
“Chissà se riusciamo a trovare i biglietti per il festival spoletino …”.
“La gioia è un equilibrio sempre precario sulle onde dell’improvvisazione jazz, ogni tanto uno squillo di tromba!”.
“Non ho ancora bevuto il caffè, manca il latte, se non è macchiato non lo bevo. Ti ricordassi mai di fare la spesa!”.
“La malinconia è l’assenza di suono, senza il ricordo della nota precedente, senza l’attesa della battuta successiva”.
“Un pranzo senza caffè non è un pranzo, dico io!”.
“La speranza è l’incerto passaggio dall’esaurimento alla completezza esaustiva del colore. È l’evoluzione dalla mancanza privativa alla saturazione supplementare di tono e timbro”.
“Mi domando se riuscirò a finire entro l’autunno la lettura dell’opera completa di Georges Simenon”.
“La generosità è colmare lo spazio bianco del foglio … o lasciarlo aperto a infinite possibilità?”.
“Stasera ti cucino i bucatini con pomodoro al forno”.

Ila di Melanila

giovedì 23 giugno 2011

LUDOVICA E GUGLIELMO, EROI



GUGLIELMIADI 6.

TI DIRO’ CHI SEI
D’estate il divano di velluto s’impone come una necessità: come imminente, incombente segno di cambiamento. Da oggetto diventa un’entità richiedente, ti interpella, ti interroga sul buonsenso e la ragionevolezza che dovresti sempre avere nella vita: ti impone di buttarlo via e di comprarne un altro, senza esitazioni. D’estate il divano di velluto equivale allo svelamento di un’evidenza: non tutto è migliorabile, l’utopia è un delirante illusorio esercizio cosciente di assurdità. Anche con un telo di lino sopra, i cuscini morbidi rivestiti di tale tappezzeria si infuocano e a sedercisi le membra sprofondano in un tepore indesiderato, che richiama un torpore alienante e confusivo. Quel guscio comodo offre un non-relax opprimente, ma adoperarsi a favore di un acquisto quando ci si dovesse trovare in condizioni psicologiche disagevoli è sconsigliabile. Un indifferente e robusto divano in pelle almeno ha il pregio di restare inalterato. Poiché tonico, non accoglie l’impronta del corpo. Non muta aspetto, non promette nulla che poi non possa mantenere, scolpito e fiero sta. La poltrona in vimini è generosa perché fa respirare le sue fibre aggrovigliate. Non del tutto indipendente, perché ha bisogno di cuscini che ne ingentiliscano la seduta, suggerisce di non star molto adagiati, giusto il tempo di bere una bevanda fresca e poi uscire. Funzionali sedie e sgabelli hanno un motivo fastidioso: evocano il concetto di necessità e di estemporaneità, un binomio inaccettabile.
Ludovica si crogiolava rallentando le parole in testa, voleva temporeggiare, indugiare. Ci sarebbe riuscita per un paio di giorni, poi il ritmo mentale vorticoso avrebbe ripreso a estenuarla avviluppandola, accelerando nel rapporto di causa e di effetto complesse problematiche. Avrebbe di nuovo avvertito il peso del mondo su di sé. I suoi muscoli spinoappendicolari avrebbero sostenuto un indebito sforzo facendo di lei un soldato cosmico ingaggiato in guerre stellari senza fine.
Il dotto precariato di Guglielmo la stava inducendo a odiarlo: sempre a studiare, sempre sui libri, lontano dalla battaglia, avulso dalle necessarie pratiche sociali che fanno delle public relations un modo per stare a galla. Si era assunta totalmente la responsabilità dello sponsale volume corpulento, dedito all’apprendimento. Avrebbe voluto urlare la rabbia contro l’idealismo impersonato dal marito, origine di tutti i suoi mali: ‘Hegel ci ha fatto fuori tutti!’, biascicava.
Semplificare, ridurre, dirigere: avrebbe ragionato sul da farsi, fino a vincere. Avrebbe scritto favole per bambini in cui le frottole - finalmente più temibili del lupo stesso - avrebbero rivelato il vero volto dei personaggi delle storie e delle avventure, avrebbe sottoscritto petizioni, avrebbe scelto il partito giusto e un sindacato. O avrebbe chiesto la separazione.
MADMADEMADMADEMADMADEMADMADEMADAM
“Da quanto attribuisci anima all’arredamento? Mi preoccupi”, sentenziò l’uomo con cui abitava.
A partire da quale momento, precisamente non lo sa, Ludovica interagiva con l’ambiente, senza ausilio di sostanze psicotrope. Non colloquiava con le piante, interpretava lo spirito che tutto pervade, anche il mobilio. “La Chaise Longue potrebbe non trovarsi bene da noi”, questa sola affermazione ebbe il potere di far scaturire un rigagnolo di sudore sul viso di Guglielmo, assorto e avvilito tra la gente loquace e indaffarata del MADEexpo di Milano. “Perché, se posso domandarlo?”, “Beh, non è mia intenzione privare Le Corbusier della sua gloria, ma quella struttura tubolare lucidata a specchio mette soggezione, è ineludibile il rigore elegante della sua struttura, impone l’imbarazzo del confronto con gli altri componenti del nostro scenario post-prandiale, qualora la comprassimo per il salotto. Invoca per sé un rispetto regale, una calma e una solennità da pezzo singolo: non si integra, non si integra ... i suoi moduli allungati favoriscono una distensione che non prevede parole da scambiare con nessuno. Presuppone il vuoto intorno a sé, il silenzio. La Chaise Longue non è snob, ma isolazionista sì, e freudiana purtroppo. Se poi è rivestita di vernice epossidica nera e di materassino e cuscino per la testa, è un inno al tratto marcato senza sfumature, ricorda più banalmente il lettino prendisole ma non siamo in vacanza! E chi può partire del resto? Che dire del Daybed di Mies van der Rohe? Con i suoi piedini cromati sancisce la fine della distinzione tra veglia e sonno, imperdonabile. Non vorremo nessuna Chaise Longue”.
“Costa molto invero”.
“Mies?”.
“Mies van der Rohe vuoi dire …”.
“Il Daybed”.
Ma stiamo parlando della Chaise Longue!”.
“Voglio il fagiolo”.
“Perdonami?”.
Voglio il sacchetto di fagiolo: la Beanbag di Lucy dei Peanuts”.
“Sono anni che dico di no, ti conosco più di quanto non conosca me stesso: tu odieresti la gomma piuma di memoria, inizialmente comoda ti sentiresti  poi catturata dentro la sagoma informe, trattenuta in una trappola, mi chiameresti per liberarti da quella morsa e dovremmo trovare un acquirente su eBay perdendoci dei soldi tra l’altro …”.
“Allora la poltrona Joe di De Pas”.
“Niente affatto”.
“Perché?”.
“Perché ti sentiresti sicura come tra le mani di Dio, poi piccola e indifesa fino a regredire ai sei anni di età, faresti di quel guantone la tua casa, lo eleveresti a simbolo di protezione e rifugio, entreresti concettualmente in una zona di riparo da cui non usciresti più”.
“Totti Gol!”.


Ila di Melanila


 

domenica 12 giugno 2011

RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE

MASSIMILIANO PERROTTA, SICILIANISTA MODERNISTA


L’incanto immobile, ipnotico e disperante degli scenari terrosi senz’acqua. La sferza del sole e l’arsura della bocca mitigata dalle bevande agrumate. La complessità raffinata delle trame letterarie. L’attitudine al filosofare capzioso che risolve nell’aforisma un pensiero saturo, spesso cifrato quanto enigmatico. Il pudore del cuore e il lirismo nostalgico dei sentimenti, stipati gelosamente nella segretezza del viso. Lo sdegno per lo Stato assente, la vocazione alle istituzioni delusa dalla coazione alle logiche mafiose, corporative, clientelari. Massimiliano Perrotta riassume nella sua persona i tratti identitari e culturali del nostro Sud, della Sicilia.

Porta la sua firma “Hammamet” (che ha debuttato il 25 novembre 2008 al Teatro Tordinona di Roma), rilettura autocritica (“da sinistra”) degli anni in cui cadde la prima repubblica, centrale la figura di Bettino Craxi. L’autore tenta un giudizio obiettivo dei fatti storici ormai sprovvisti di urgenza e decantati nel tempo trascorso. Propone un esame di coscienza in pubblico. Sottolinea la partecipazione popolare alle inchieste di Mani Pulite: «Era come se la presunzione d’innocenza fosse temporaneamente sospesa, le procure istruivano le indagini, le condanne venivano decretate sui giornali, sugli autobus, nei bar». Mettendo da parte le teorie complottistiche, continua: «La figura su cui principalmente si riversò l’odio collettivo fu quella di Craxi: perché di quella classe politica era il più autorevole rappresentante, perché fu l’unico a contrapporre al nostro furore un tentativo di difesa delle proprie ragioni». Accanito lettore di biografie, affascinato dal carisma del leader milanese di origine siciliana, il giovane regista tenta un giudizio equanime: «Una delle infamie di quegli anni fu trasformare la parola socialista in un insulto».

Sul podio della coscienza Perrotta elegge in un nobile primato la sua gente. Non solo Luigi Pirandello, Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Gesualdo Bufalino, Angelo Maria Ripellino, ma soprattutto i meno noti come Vincenzo Consolo, Stefano D’Arrigo, Sebastiano Addamo, Giuseppe Bonaviri. «C’è Tomasi di Lampedusa e c’è Leonardo Sciascia, c’è il fantastico e c’è il reale…un bel secolo insomma quello del Novecento siciliano. Un po’ per contatto con la materia, leggendo, un po’ per affinità, mi sono ritrovato dentro questo magma. Non si tratta di una scuola unica, ci sono diversi filoni, maestri e discepoli».
Il distacco antisentimentale connota uno sguardo dalla doppia lente, che permette nella sua produzione artistica sia una visione narrativa ferma, che fantastica, quasi epica.
«Ho avuto il privilegio di collaborare con Sebastiano Addamo, uno scrittore vicino per certi aspetti a Sciascia. Sono entrambi accomunati dallo stile secco e da un certo pessimismo: più esistenziale nel primo caso, più storico nel secondo. Sciascia ha vissuto la fine del fascismo e la speranza nella democrazia, che doveva cambiare le condizioni di vita del Mezzogiorno oppresso. Ma ne fu deluso. È in assoluto uno dei miei modelli per lo sguardo spietato, lucido, analitico, essenziale. Era ossessionato dal rispetto delle regole: lo spirito della costituzione (che considerava tradita), il processo giusto, il garantismo, le battaglie radicali. La sinistra gli ultimi anni della sua vita l’ha messo un po’ all’angolo per articoli come “I professionisti dell’antimafia”, in cui faceva un discorso paradossale, ma sensato. Mi affascina però anche il filone visionario, affabulatorio di Bonaviri e D’Arrigo».

Affettivamente legato ai nonni, quando Perrotta considera la sua infanzia e recupera il fanciullino pascoliano, riveste la memoria di emozionalità naïf, patrimonio spirituale che lo conduce a un tenue petrarchismo romantico.
«Sono nato a Mineo, che è un paesino dell’entroterra miticamente legato al raduno sull’altopiano di Camuti. Immaginiamo una specie di festival di Sanremo dei poeti dialettali, che si riunivano una volta l’anno attorno a una pietra che pare avesse un potere taumaturgico (secondo la leggenda, se le donne incinte vi si sedevano sopra, sarebbe nato loro un figlio poeta). Nell’Ottocento il più illustre nativo di Mineo è Luigi Capuana, nel Novecento Giuseppe Bonaviri a cui nel 2007 ho dedicato il documentario “Bonaviri ritratto”».
Nel rischio del campanilismo, seppur estetizzante, proprio non ci casca. Il regista trentenne affonda le radici nel sottosuolo stratificato archeologicamente rilevante della sua isola, un tempo crogiuolo di popoli, babele di idiomi. Ma poi, ramingo nelle pagine di tutta Europa, esule e nomade cerca approdo nel modernismo novecentesco di T. S. Eliot, Ezra Pound, Franz Kafka, James Joyce.

Vive una vita di lavoro e di studio a Roma, con la bussola orientata su Schopenhauer che, lapidario, così si esprimeva: «A parte poche eccezioni, al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese».
Ha scritto e diretto gli spettacoli "Gli specchi" (2006), "Hammamet" (2008), "Filosofi da bar" (2010); i corti teatrali "Matilde di Canossa" (2008), "Gocce" (2009), "Il mantello" (2011); i video “Expo”, “Bonaviri ritratto”, “Mineo”, “Sicilia di sabbia”.
Ha pubblicato "Cornelia Battistini o del fighettismo" (La Cantinella, 2006; traduzione francese: LC éditions, 2011), la versione teatrale del racconto "Fine di una giornata" di Sebastiano Addamo (La Cantinella, 2008), "Hammamet" (Sikeliana, 2010; anche in edicola con il Giornale di Sicilia).
“HAMMAMET”, IL SACRIFICIO GIUSTIZIALISTA


“Hammamet” di Massimiliano Perrotta è il dramma della sconfitta di un titano della scena politica, rifugiato in terra tunisina negli ultimi anni della sua vita, Bettino Craxi. Fu davvero uno scacco? Gianni Pennacchi lo chiama esilio.
E’ scoppiato lo scandalo Tangentopoli. Nelle aule giudiziarie le toghe sono impegnate a imputare gravi episodi di corruzione e concussione agli esponenti tutti della classe dirigente. La falla del sistema è il finanziamento illecito dei partiti. A Roma imperversa un giubilo apocalittico popolare misto giacobino: il 30 aprile 1993 muore simbolicamente Craxi, ucciso dalle beffe rabbiose della piazza, sotto una pioggia di monetine. La gazzarra mediatica rincorre e ripete la retorica inquisitiva dei tribunali, strombazza in breve la fine della prima Repubblica. Il rumore è ovunque.
Il giovane autore catanese, quietati gli sciacalli, fa ammenda. Segna l’accesso a uno spazio quasi oracolare in penombra: un recinto sacro in cui a rivelarsi è la verità umana del simulacro dileggiato.
Nell’introduzione al testo edito da Sikeliana, Pennacchi sottolinea come sia premura del teatro rendere giustizia e onore ai vinti: “Questo avviene dai tempi di Eschilo”. Possiamo quindi assimilare il regista siciliano a un poeta epico che descrive un mito eroico, ne interpreta il dolore e muove istanze morali, senza moralismo. Il suo “Prometeo incatenato” lotta per la civiltà ma  l’offerta del fuoco non viene premiata dal plauso finale, causa il risentimento di Zeus. Greco è l’impulso ad autodeterminarsi, a disegnare la vita secondo le proprie ambizioni, greca la tendenza universalizzante e greca la volontà di difendere la propria libertà interiore, come ci conferma Plutarco nel suo trattato sulla gioia: “Solo una piccola parte dell’uomo è esposta agli attacchi della tyche, ma della parte migliore siamo signori noi stessi. La tyche può toglierci denaro, fama, perfino la vita fisica, ma non è in suo potere renderci cattivi e vili, rapirci a noi stessi e privarci dei veri valori del nostro animo”.
Il segretario del PSI ha sofferto di manie complottistiche e dell’abbandono amarissimo da parte di alcuni dei suoi. All’incalzare dei giudici, non è stato affatto conciliante, ha ostentato la sublimità dell’eroe che non rinuncia alla sua superiorità sul fato. Conosciuta la sventura, si è difeso con il logos.
Nessuna beatificazione: il componimento apologetico che è argomento di questo incontro restituisce dignità dopo l’oltraggio al primo socialista che è riuscito a ottenere la presidenza del Consiglio.
Se tragicità è distruzione, tragica è la rovina di uno per il bene di tutti, tragica è stata la distruzione morale della persona di Craxi non più e non solo soggetto politico.
Sul palco Roberto Pensa dà voce alla meditazione sommessa, accompagnata da un efficace esercizio di sincerità e onestà intellettuale. Il registro tonale è quello della pacatezza. La scenografia minima sostiene quanto basta l’interpretazione attoriale affidata tutta alla parola. Chiama all’ascolto attento del testo che ha una qualità formale estetica indipendente rispetto alla performance. Il canto alternato con il corifeo è privo della reciprocità di domanda e risposta. La forma dialogica è annullata. La tragicità dell’esultanza orgiastica dei carnefici sul capro espiatorio è contenuta nell’antefatto, premessa del testamento spirituale che fluisce affidato alla traccia permanente di un registratore portatile.
Il riferimento a “L’ultimo nastro di Krapp” di Samuel Beckett è necessario. Le affinità tematiche ci sono, come pure le divergenze. I personaggi del dublinese sperimentano una crocifissione senza redenzione. Estragone, Clov sono tormentati da un impaccio al piede che rende l’andatura claudicante, altre volte può capitare che sia una montagna di sabbia a intrappolare il corpo del malcapitato nell’immobilità, fatto sta che non c’è scampo all’inettitudine. L’intellettualismo sofisticato aggrava l’impedimento, è la scaturigine del sarcasmo irridente, della buffoneria nera, dell’autoparodia clownesca. La frammentazione della scrittura drammaturgica corrisponde alla disintegrazione dell’io, il collasso nevrotico trattiene il boato. Deserto, desolazione, dissociazione, disperazione, agonie oniriche e agonie reali: un comune serbatoio di noia esistenziale e afflizione appartiene a Kafka, Pirandello, Ezra Pound, Pinter, Beckett, apparentati dalla percezione dell’assurdo.
A differenza di Krapp che riascolta alcune pagine di diario e trova un altro da sé, quindi non si riconosce, Craxi si ritrova. Seduto alla poltrona, con la sua giacca sahariana, ragionevolmente rende conto del suo operato. Le riflessioni si dipanano con chiarezza olimpica, il che equivale a una riconquistata coerenza, una riconquistata sensatezza, una riconquistata compiutezza. Si verifica un’adesione dell’io al sé, un passo in avanti verso l’agognata unità dell’essere.
In “Dante e l’aragosta” di Beckett, Belacqua prende lezione di italiano e discute con l’insegnante della pietà e della dannazione: “Perché non la devozione unita alla pietà anche quaggiù? Perché non la compassione insieme alla religiosità? Un po’ di compassione in mezzo alla pena del sacrificio, un po’ di compassione per poter rallegrarsi a dispetto della condanna”.
Ezra Pound chiude il 116° Canto con quello che sembra un appello alla grazia divina: “Carità talvolta io l’ebbi, non riesco a farla fluire. Un po’ di luce come un barlume ci riconduca allo splendore”.
E’ precisamente questo sentimento che ha indotto Perrotta a scrivere “Hammamet”.
Come i figli contestano i padri, a diciotto anni anche lui ha contestato Craxi (considerato per il tratto perentorio, decisionista, risoluto e accentratore il padre-padrone del PSI). Ma ha superato la fase del risentimento adolescenziale, si è identificato  nella figura del padre (in senso lato) e assumendone il punto di vista (sempre in senso lato) è diventato a sua volta padre: ha recuperato quel modello per essere lui stesso genitore del novum.

“FILOSOFI DA BAR”
Il pensiero speculativo, la marca esistenziale e la vena poetica si combinano con la levità naïf, che pure c’è nella sua produzione, stavolta predominante, fino a invertire di segno ogni possibile rilevanza significante. Nell’intermezzo coreutico (una vera e propria quota rosa questo balletto ideato ed eseguito da Barbara De Blasio) un personaggio piumato, in doppia veste di cameriera e musa, assiste ai soliloqui etilici di pensatori tautologici persi dentro il bicchiere. Il titolo dell’atto breve è appunto “Filosofi da bar” (2009) che con “Ginevra” (2010) compone un dittico.
“GINEVRA”, PERDERSI DENTRO UN BICCHIERE
Nei bar, nelle osterie, a ridosso delle fontane nelle piazze, a zonzo per strada spesso si fanno le migliori conversazioni. In “Ginevra” di Massimiliano Perrotta due signori seduti al tavolo di una bettola parlano del male del mondo. Non il perché del dolore, ma il come dell’esistenza, è questo il tema. Il dottor Coppola e il professor Caruso discettano sui destini dell’umanità con semplicità e delicatezza di tono. Ripropongono la secolare contesa tra Dio e gli scienziati sulla reggenza delle sorti. Nessuno dei due sembra essere credente. Entrambi interpretano un comune sentire che vorrebbe sconfiggere la morte. Uno amerebbe l’immediatezza della soluzione al problema, inclusa persino la possibilità di prolungare il migrare dei giorni fino all’estremo limite. L’altro dichiara la necessità delle lacrime da consolare più della consolazione stessa, quasi che a essere accontentati si perda qualcosa. Fideismo, scientismo, scetticismo, empirismo, a prevalere è il realismo magico. I due dotti a un certo punto vedono avvicinarsi Luciano, l’oste, vedovo ancora innamorato che propone di bere insieme un bicchiere. Il nome della moglie ritratta in foto (con la quale continua a monologare a fine serata come sempre) suggerisce un certo romanticismo cavalleresco, descrive la nostalgia dell’amore avuto e la speranza di un altrove metafisico in cui la persona intera possa ritrovare il suo stesso immutato amore per una donna che non c’è più. Rilevante nella disputa è il volontario aggiramento da parte del regista della dottrina della Chiesa, dogmi e così via, fatta salva la premessa che rimbomba all’inizio del corto, ossia la preghiera ambientale di Paolo VI che introduce al cuore dei ragionamenti: la risurrezione della carne e la vita eterna. In “Ginevra” la complessità ingenua sta nel proporre uno scambio di battute tra i convenuti, che però, omettendo di considerare le vicende di Cristo Gesù e del calice di ebbrezza che redime chi lo vuole, fanno i conti senza l’oste.
“IL MANTELLO”
Un uomo anziano, al centro dello spazio scenico, è interrotto nelle sue meditazioni da un giovane che irrompe nel suo antro e lo attraversa per poi uscirne. Assiso, ha un’eco da prototipo: se non un caravaggesco San Gerolamo, certo tende le mani alla tradizione iconografica degli eremiti nel deserto e, dato l’oculare barlume psicotico alla Hitchcock, anche alla collezione dei matti che l’archivio di celluloide fornisce: che si tratti dell’evoluzione dei ballerini squadristi di Kubrick ridotti all’unità del singolo? Il vecchio, si suppone saggio, offre il suo aiuto all’inatteso incursore e ricorda di averlo già introdotto in un clima da simposio, favorendogli la lettura del libro, si intuisce sapienziale. È tuttavia smentito dai modi sbrigativi e allertati del fuggiasco, che lasciato il suo paese non conosce la valle e si avventura da solo verso l’ignoto, sordo ai comandi. Massimiliano Perrotta nel “Mantello” sembra aver trattenuto un vago sentore degli psichismi isterici, di pirandelliana ascendenza, riconducibili ai fraseggi di Sebastiano Addamo che indaga l’umana ostinazione e il pervicace accanimento con cui taluni negano l’importanza delle apparenze o l’appropriatezza dei cognomi. L’aggressività di un unico scatto repentino da parte dell’uomo, vestito in penitenziale tenuta arancio, fa precipitare il tratto aulico del lessico e dà un’improvvisa accelerazione al tempo immoto e sostanzialmente remoto del corto teatrale. Il ragazzo fa per allontanarsi. Minata l’autorità patriarcale, con la disattenzione prima e l’evasione poi del discepolo, non si realizza un’importante condivisione. L’offerta del mantello, simbolicamente indicativo della necessità di premunirsi contro le intemperie, cade nel vuoto. L’apparizione finale di un limone, mondato in tempo reale, chiude l’atto. Con Roberto Pensa e Benedetto Cantarella, scritto e diretto da Perrotta, “Il mantello” (2011) è stato presentato al Tordinona nell’ambito dell’undicesima edizione di “Schegge d’Autore”. Direzione artistica di Renato Giordano, il festival della drammaturgia italiana contemporanea vanta, secondo le parole del presidente della giuria Franco Portone, una “dinamogena potenzialità di stimolare e attivare la coscienza critica dello spettatore, qualità che non è cosa né del cinema né della televisione”.

Ila di Melanila

sabato 11 giugno 2011

PERROTTA CORSARO

"SICILIA DI SABBIA”



Raccontare la Sicilia tra mito e trasformazione, questo il nodo centrale attorno a cui ruota il documentario dal titolo "Sicilia di sabbia" di Massimiliano Perrotta. Ripercorrendo il viaggio di Pasolini per il reportage "La lunga strada di sabbia" del 1959, il lavoro del regista catanese vuole raccontare attraverso alcuni esempi emblematici in che modo la modernità abbia trasformato l'isola e in che modo non sia riuscita a farlo. Quindi narra di come alcuni luoghi visitati dall'autore degli "Scritti corsari" siano rimasti sostanzialmente identici e di come altri abbiano invece subito un processo di cambiamento. In particolare sono cinque le località protagoniste di questo "racconto": Taormina, Catania e la zona incompiuta del corso Sicilia, Priolo Gargallo e il polo petrolchimico che la sovrasta, Siracusa, con il Santuario della Madonna delle Lacrime, e il piccolo paradiso terrestre di Portopalo di Capo Passero.

Nei confronti di Pasolini c'è prossimità o divergenza?

«Pasolini è un autore che sento a me affine nello sforzo di raccontare in modo critico la contemporaneità e le sue trasformazioni. Lui era, specie nei suoi ultimi anni, apocalittico, io mi sento più dialettico, però entrambi siamo accomunati da una passione per la dimensione mitica del reale. Col Pasolini polemista corsaro ho polemizzato nel mio scritto "Dell'antipolitica", ma è più esatto dire che ho polemizzato con la sua "santificazione" da parte della sinistra italiana odierna: Pasolini voleva essere un "cattivo maestro", eleggerlo a "maestro" in modo acritico è secondo me un modo di tradirlo. Comunque ritengo gli "Scritti corsari" un capolavoro della letteratura polemica novecentesca».

 Sarà una Sicilia prevalentemente letteraria? Riferimenti attuali?

«"Sicilia di sabbia" vuole essere un tentativo di lettura della mia isola raccontando come è cambiata negli ultimi cinquant'anni. I riferimenti letterari ci saranno ma al servizio del discorso video. Ho intervistato il filosofo Manlio Sgalambro a proposito della sua "Teoria della Sicilia" e lo scrittore Domenico Trischitta sul quartiere San Berillo di Catania. A Catania ho filmato anche la casa in cui visse i suoi ultimi anni uno dei poeti che più amo, Sebastiano Addamo».

Il documentario è realizzato in collaborazione con la Film Commission Regione Siciliana/Sicilia Film Commission e prodotto da Francesco Paolo Montini per la Movie Factory di Roma.


Ila di Melanila

lunedì 6 giugno 2011

LA VITA È IN SOGGETTIVA

Quella che segue, come le precedenti in questo blog, è una narrazione nata senza troppe ambizioni, per la necessità di popolare l’immaginazione di personaggi e piccole storie.

UNO IN TOTALE


Soffri per il peso improvviso che grava sul tuo plesso solare. L’intelligenza ammutolita, lì per lì, non aiuta granché, dichiara forfait. Potrebbe essere semplicemente ansia. Per te è una iattura. Rimani perplessa. 
Nel conciliabolo della tua coscienza, chiami a raccolta le sinapsi. Respiri a fatica e la voce esce smorzata. Stai attenta a non lasciar trapelare accenni benché minimi di sofferenza, perché non vorresti che il tuo carnefice cogliesse l’occasione per ribadire l’offesa. Lo sdegno, sì lo dimostri, con il silenzio, con lo sguardo, ma non parli, qualche battuta solamente.
Trascorso un po’ di tempo, ti concedi un’offensiva dialettica. Manifesti le tue opinioni, esponi le tue ragioni. Offri una diagnosi del male all’interlocutore freddo e impassibile, che non accoglie le tue parole e non ascolta perseverando nella negazione della tua persona. In termini di psicologia spicciola si chiama attraversamento di zone morte. Subisci accuse e una netta condanna, una sentenza inappellabile: non sei remissiva, non sei rispettosa.
Sei sola di fronte al dramma del mondo, gli occhi sull’abisso. Non è forse questa l’immagine romantica per eccellenza? La figura umana che si staglia senza il conforto di altra umanità su uno scenario che sovrasta in grandezza la sua spoglia mortale. Una persona che affronta individualmente il cataclisma, la sciagura, la rivelazione del mistero, questo è sublime. Un eroe tragico senza la presenza del coro, questa è la solitudine. Tu, per alcuni momenti, ti senti così. Si potrebbe obiettare che è un’esperienza comune. Per alcuni momenti, quando la vita offende in modo massiccio la tua sensibilità, avverti il tuo ‘io’ scorporato da tutti gli altri: da quanti inalano aria per esistere, da quanti camminano, ridono, parlano, ascoltano, cucinano, piangono, amano. Senti la fenditura aprirsi, la lama affondata, dall’esterno, ti lacera il cuore. Nell’adolescenza crollavi, morivi dentro. Adesso non più, accusi i colpi del destino senza disperare, cerchi una chiesa e ti metti in contemplazione di un’icona di Maria, provi a comunicare con il Crocifisso.
L’incrinatura che comincia a fare smagliature nell’anima a un certo punto si ferma, almeno non prosegue, ma vena d’incertezza il tuo sentire. Poi meglio, senti il bisogno di conforto, ti avvicini ai tuoi cari, rendi trasparente e leggibile la vulnerabilità del tuo essere.
Piano piano riacquisti la tenerezza e la dolcezza dei sentimenti più profondi che ti legano alla famiglia, i vincoli del sangue ti garantiscono la ripresa. Sei colta di soprassalto, ti attraversa la mente la corrispondenza tra alcuni precisi stati d’animo e le combustioni di Alberto Burri, un artista con cui devi essere in rapporto di affinità elettiva. Le sue installazioni descrivono l’implacabile aridità, prima meteo, poi quasi metafisica, della superficie divisa del cretto. La plastica ustionata mostra indifferentemente la prova del fuoco subita, l’estinzione della compattezza del tessuto sintetico, la risposta della materia all’intervento laborioso della creatività.
Hai bisogno di idratazione, acqua da bere che ti disseti, acqua in cui nuotare che ti accolga nell’abbraccio levigante di moti calmi. Torni a muoverti senza appoggi muscolari, come un feto nella culla del liquido amniotico, al ritmo del battito cardiaco, e nuoti. Esci dal mare, l'estate il tuo corpo svestito è in piena evidenza. La tua figura tornita indica il bersaglio. Se la ripetitività ipnotica della risacca marina mitiga il timore dell’imprevedibile inscritto nei sensi in allerta, cominci a detestare la leggibilità senza scampo delle tue membra. Seno e cosce acchiappano gli esuberi di malizia dei bagnanti, come gli orsi il miele. Temi l’arrivo della tempesta, inattesa dai più. Per lo sguardo pigro di un estraneo, tu sei lì, ciò che vede e niente di più. Prime avvisaglie di pioggia, il cielo è coperto. Una goccia. Temporale. Magnetico.
Non so come, ma l’hai fatto. Ti sei incapsulata dentro te stessa, come un dente nel suo rivestimento in ceramica integrale. La foggia esterna dissimula, nasconde, migliora, peggiora la sostanza interna. Sei costituita di sole fibre nervose, altro rispetto alla forma tangibile, riconoscibile.
A volte la percezione di te stessa non risponde al genere sessuale a cui appartieni, né al ruolo di figlia in casa, né alla professione o ai titoli di studio, ma alla sola sensazione di essere cucinata a puntino dalla vita, un po’ come l’orata dentro il cartoccio. In alcuni momenti, seduta in poltrona a guardare un punto fisso nel vuoto, potresti essere chiunque. Sperimenti una sorta di anonimato nel municipio del tuo cranio, vaghi senza documenti sulle vie dell’inconscio, psiconauta senza mappe.
L’esperienza di perdersi, parlando più o meno letteralmente, ha un che di buono. Ami ritrovarti, ami ritrovare gli altri, non tutti gli altri, ma alcuni altri. Senza muovere un passo, sei una girovaga itinerante, una nomade credente e perciò pellegrina, una errante dedita alla 'flânerie'. Se poi si considera un minimo sindacale di romanticismo involontario, il mondo, ovunque spiri lo spirito dei tempi, compatibilmente con il genius loci, potrebbe essere la tua casa. La nostalgia di Pessoa è anche la tua, la sua patria sarà anche la tua.
Sei dunque vuoi. Vuoi compiere un esodo da te stessa, fino a non essere più, ma poi decidi il contrario, perché ci si debba pentire di esserti contro.
Non sempre la sostanza è la ciccia. L’aspetto burroso, barocco, della tua persona tradisce un processo di essiccazione non rilevabile con gli occhi, angolosità acciarine incomprensibili senza la mediazione del logos.
Leggi Leonardo Sciascia, ma sei ancora impastoiata con le implosioni di Maria Messina.
Trovi che gli esseri umani di genere maschile siano, spesso, noiosi, e le donne grulle: amano e sperano di essere amate, sempre.
Tinuccia, l’isola in cui sei nata ti castiga, ma tutto il mondo è paese. L’estensione geografica della terraferma e ciò che vi accade conferma le tue idee: le persone che vi abitano su, i criteri per discernere il bene e il male, le finalità dell’esistenza, più o meno tutto passa al vaglio della mente di un maschio che si adopera a decretare, mettere in pratica e imporre un implacabile ‘antropocentrismo fallico’ di marca pagana. Una donna è buona o cattiva a seconda del bisogno intrinseco alla vita di coppia, cioè alla salute psicofisica del partner che, si diceva un tempo, porta i pantaloni. Tra i fondamentalisti, se il maschio gradisce la femmina allora la prende con sé. Siccome è geloso e possessivo la copre buttandogli addosso un velo e la nasconde agli occhi di potenziali antagonisti, essendo una sua proprietà inalienabile. Se è particolarmente caloroso la riempie, come un vaso; otre di creta, la carne di lei contiene il figlio, si apre e lo fa nascere.
Parola d’ordine per le donne del Sud? Ritenzione (idrica) e ritegno. Chi ha diritto a mangiare di più a tavola? Chi può vivere la sua pubertà con autorizzazione alla pratica senza diniego? Chi può godere di premure volte a preservare la totale libertà della barra (scambiata per cornucopia e la fortuna pare dipenda dal suo corretto uso)? Chi è esentato dalla collaborazione domestica perché le faccende equivarrebbero a una insopportabile deminutio? Chi è il preferenziale addetto al silenzio (che in Sicilia è d’oro)? Invece, chi riceve meschini ridimensionamenti dei diritti civili (quando ne esista nozione)? Efficienza e operatività inchiodano le donne alla praticità del vivere quotidiano, tempo per astrarsi non ce n’è.
Se Amleto si lamenta della mutevolezza cangiante, vanesia e artificiosa della donzella e ammonisce Ofelia di entrare in convento, scopriamo per esempio che il controverso costume di mettere il belletto e migliorare l’aspetto con il trucco è vivamente consigliato nella Bibbia: se la cura di sé tiene desto l’interesse del marito per la moglie. L’astinenza casta della giovane promessa sposa le consente di essere chiamata a nozze, tempo una notte ed ella deve trasformarsi in consorte disponibile alla fecondità con ventre generoso: da un’abilità a un’altra abilità!
L’esatta comprensione delle Scritture risulta fondamentale per ogni donna. Capire se Eva sia nata in seconda battuta come complemento funzionale di Adamo o sia nata per misericordiosa concessione divina, come ennesimo segno di benevolenza dell’Altissimo, non è di marginale importanza. Prendendo le mosse da san Paolo, se ella debba considerarsi subordinata all’autorità del pater familias o supina in ragione ultima di solidità quanto al nucleo familiare, vale a dire sotto i piedi per indegnità o sotto i piedi come  roccioso pavimento, è oggetto di fervida speculazione. Quand’anche nel matrimonio si comprenda la bellezza di porsi al servizio, come Gesù insegna nel Vangelo, ebbene questa facoltà di donarsi con amorosa dedizione sembra riservata a lei sola, lui riceve, privo della possibilità di qualsivoglia reciprocità, perché all’atto pratico è legato a doppio filo all’affermazione della sua virilità, che sarà declinata anche nelle varie specialità professionali, sociali in senso lato. La capacità affettiva sembra relegata all’esclusività del gineceo, non spendibile dentro casa o fuori casa se vigente è la legge della giungla.
Generare è proprio dei coniugi, procreare lo può solo lei. L’utero è la culla del feto, il canale del parto è l’ingresso per il piccolo non ancora nato alla vita, alla luce. Il bebè vive solo di amore, da solo non può nulla.
Tinuccia, sei un tipo ‘childish’, ti hanno detto che sei childish’, è vero, è così.

Ila di Melanila

sabato 28 maggio 2011

A TRIBUTE TO


“Città del deserto”
Diario libico
41. La via di Ghirza
[ Pagg. 71-74 ]
«Dall’alto delle tombe si vedeva, oltre la depressione dell’uadi, su un altro costone rispetto al luogo del nostro accampamento, un secondo gruppo di tombe, e a quelle si decise di recarsi nel pomeriggio. Intanto bisognava mangiare un boccone e riposarsi.
Per quanto la lunghissima sosta fra i ruderi avesse dovuto attirare l’appetito, in realtà io mi sentivo quasi senza bisogno di cibo: del resto la colazione fu, come dire, a volo d’uccello. Un po’ di tonno con cipolle crude, a cui di mio aggiunsi un formaggino, l’acqua della ghirba, e a letto.
La tenda risultò infocata al punto di mozzare il fiato. Siccome però il vento continuava, e non era il ghibli ma un vento fresco, bastò rialzare la tenda ai lati corti perché fosse percorsa da una corrente continua, come in condotta forzata. E qui le zanzariere furono provvidenziali. Perché c’erano tante mosche appiccicaticce e distratte fino al punto di entrare, come nulla fosse, in bocca. E nulla è più revulsivo che sentirsi il sudicio insetto svolazzare in libertà sotto il palato. Letteralmente bisognava stare attenti a non aprire troppo le labbra. Ma con la zanzariera il riposo scese come la rugiada.
Mi svegliai leggero, con la pelle asciutta, e non potei fare a meno di pensare ai sonni estivi, affannosi, in una pozza di sudore, da cui ci si desta come bastonati.
Il secondo gruppo di tombe era distante e dovevamo riprendere l’automobile. L’accampamento aveva finito insensibilmente per neutralizzare il deserto. Appena se ne fu fuori dalla vista, fuori dall’uadi su un nuovo pianoro sassoso, il deserto si ricomponeva. Tornava nella dimensione che non ha dimensioni, per cui è sconfinato anche dove restringe l’orizzonte, nella privazione che tuttavia non fa terra bruciata. Lo sentii con crudezza quando ad un tratto, lungo la incertissima pista, si vide una bottiglia vuota di gin, evidentemente a segnare una direzione. Dovunque i rifiuti risultano sgradevoli, ma qui nel deserto, la bottiglia vuota si sentiva come una scorrettezza: c’era una severità che andava rispettata, una nettezza che era superiore alla pulizia, una mancanza d’ordine che non ammetteva il disordine. Cammelli, pecore, capre passavano e non lasciavano traccia: e quella che lasciavano era tale che si pietrificava subito, scompariva restando in vista come ghiaia. Gli arabi non lasciavano cartacce, latte vuote, bottiglie. Silenziosi trascorrevano in quel letto morto delle strade che sono le piste, note ad essi senza contrassegni e anche senza le rotaie delle macchine. Solo, se qualcuno moriva in cammino lo seppellivano dove era caduto, sotto il peso di uno strato di pietre, e una sola a paletta al posto della testa. Nulla, se non quella pietra a picco, distingueva il luogo da quell’immenso cimitero di pietre che è tutto il deserto.
L’autista si accorse di aver dimenticato di mettere la benzina: era meglio rientrare al campo, si trattava di poche decine di minuti. Ma io chiesi di aspettare lì, che tornassero a prendermi: la pista era chiara, né poteva esserci dubbio. Così rimasi solo e mi sedetti fra i sassi. Naturalmente mi venne di ricapitolare quel tempo che avevo passato nel deserto. Si riduceva a ben poco: ma come il passato veniva a trovarsi ad una distanza che rigorosamente il tempo trascorso non giustificava; questi limitati giorni s’erano distesi in me come un fiume in piena, non sapevo più quanto spazio occupassero. E domandandomi il perché di un tale sopravvento, io non potevo certo arguirlo dalle cose che erano accadute, e quasi non facevano materia, o da quelle antichità che avevo visto, e troppe altre, assai più importanti, dovevo riconoscerne per il mondo. Sicché in definitiva tutti i minuti episodi che si erano succeduti si riducevano a polvere di vita comune, che come polvere ricadevano, e si annullerebbero nell’indistinto. Ma io sentii che proprio il fatto di non essere che della vita comune si poneva come significativo, e che tutto ciò si disponeva in una prospettiva diversa, perché io mi trovavo come se, quella vita comune, la guardassi da un altro lato. Non era il lato opposto a quello da cui si guarda il palcoscenico, e tutto si riduce allora ad una finzione: nulla qui diveniva finzione, anzi l’inospitale accoglienza degli inglesi, il pacato risentimento degli arabi, le scomodità di una convivenza improvvisata restavano col loro peso di realtà concreta e non si vanificavano. Solo che io le sentivo ora senza rancore, senza partecipazione attiva: mi trovavo come se mi fosse morta una persona cara e io potessi contemplare l’evento, non già con freddezza ma nella sua vicenda vitale più grande, illimitata, partecipe al passato e al futuro, mentre l’urgenza del caso singolo lo fa percepire solo nel morso locale e dolente del sentimento.
Tutta la vita mia continuava ad essere la mia vita, certo, ma non era che un episodio, fra gli infiniti, del mondo e quel che contava realmente non poteva dirsi davvero l’incidente che mi aveva indispettito o la pochezza d’animo di un compagno, ma un fatto basilare che sottofondava tutto e non s’aboliva né si giustificava per quel minuto andirivieni come di onde di sabbia, ora così disposte ora cancellate, che variegavano le dune degli uadi e che sembravano le labili impronte digitali del caso, di un destino solo superficiale. Ma il vivere non si esauriva in quella cieca scrittura sulla sabbia, né si limitava alla persona che lo pensava. Ben altrimenti io sentivo e mi spiegavo ora quel che avevo percepito dapprima nel deserto, che ogni luogo indiscriminatamente diveniva un centro, il centro del mondo, ed io l’albero della vita. Era giusto infatti, ma solo in questo, che non riportava tutta la vita alla persona, ma la persona investiva di una vita più grande. Onde compresi come nulla fosse più lontano dalla solitudine di quel che provavo da quando ero nel deserto. E come il deserto, così inteso, fosse ben altro che solitudine e derelizione. Io non mi sentivo derelitto, per quanto posassi come sul fondo dell’anima, per quanto tutto mi fosse più lontano del cerchio dell’orizzonte, per quanto la singolare spoliazione che avevo subito mi mettesse a nudo e come frugato dalla luce, per cui veramente ero di fronte a me stesso in una confessione totale. Non ero derelitto tuttavia e, se non provavo gioia, per la prima volta in fondo a me non covava l’angoscia, come il sotterraneo sempre aperto, la voragine in atto.
Una serenità sconfinata s’era aperta in me, come una alba. Il paese che mi circondava era tutto meno che un paesaggio, non era più nemmeno un paesaggio distrutto, come sono in realtà gli uadi che furono piante, furono biade. Era, con quello sconfinato letto di pietre, qualcosa come il fondo di un mare prosciugato o un differente pianeta. Ma era anche la terra come unità primigenia, come il numero uno che è tutti i numeri. Sentii allora che si dividevano le persone fra quelle che vivono in un paesaggio e quelle che vivono in terra, e come vivere in terra sia vivere con la terra, in una stretta prenatale. Certamente, vivere con la terra poteva anche venire frainteso alla base, perché la terra è ogni volta quella città, quella campagna, quel mare, come quella notte, quel giorno, quel tramonto; onde la distinzione, appena posta, sembrava si sciogliesse come la neve fra le dita. Ed ecco mi era sovvenuto il deserto per farmi intendere come la terra può non essere paesaggio, casa, fiume, mare, e mostrarsi in una fase anteriore alla vita, all’essere dell’esistenza concreta, in quanto la sua materia, sassi e sabbia, non conta come materia e supporto della vita, come i rifiuti stessi, amorfi, sterilizzati dell’essere.
Ad una ad una mi ritornavano quelle prime determinazioni che avevo isolato durante il viaggio: la mancanza di limiti che pure non è l’infinito, l’impossibilità di valutare le distanze e le grandezze, che pure non è perdita di una misura interiore, l’assenza di ordine che non è disordine. Ed ora avevo sentito che il deserto non è puro, ma è privo di qualsiasi impurità; che non è utile, ma non consente rifiuti. A questo punto mi colpì che tali determinazioni, per negative che fossero, erano anteriori alla mia stessa coscienza e al mio pensiero. Il deserto come esperienza diretta dell’essere.
E qui non mi persi, mi ritrovai. Onde tutte le conseguenze, che ne trassi e continuerò a trarne finché io viva, sono legate a quella rivelazione di un attimo che fu rivelazione di null’altro che di se stesso»
Cesare Brandi