L'ironia è dinamica

L'ironia è dinamica

lunedì 31 gennaio 2011

DARE CULTURA ALLA MENTE CONVIENE SEMPRE?

Il caso Judy
Aveva una corporatura robusta di donna celtica cui si aggrappavano seni abbondanti e lievi fasce di adipe lungo i fianchi, rotondità che non riuscivano a sistemarsi agevolmente sul suo corpo alto e slanciato di quarantacinquenne. Erano quelli i suoi abbracci, le sue difese contro altri corpi.
Judy spesso era cupa ma pronta ad accendersi di imprevista allegria quando nel muro della routine si apriva una crepa, una novità a sconvolgere la stesura piatta di accadimenti senza risonanze. Il sordo torpore della memoria cui si abbandonava era decisamente meglio che sentire i propri lamenti partire dall’interno senza poter deflagrare in un boato. I suoi occhi, vivi di un lume interno, erano due stretti e vigili spiragli che si affacciavano con poca curiosità sopra gli zigomi, costantemente spolverati dalle lunghe e vagamente arcuate ciglia. Arrossati a sera, quando anche l’intero viso partecipava con ogni suo piccolo muscolo ai pensieri-di-trivella-in-cunicoli-sassosi-duri-a-scavare, diventavano due severe fessure appesantite da palpebre stanche, che le conferivano un’espressione dubitativa di donna pensosa. Ma sorridere a chi? Non più a Robert.
Il suo salotto, il tè delle cinque e i racconti di Čechov: bastava quella consuetudine a dare accoglienza familiare allo straniero dentro di sé che il destino le aveva legato in mortale abbraccio, con filo spinato intorno al cuore. Il silenzio, altro protagonista muto, si colmava di stupore per l’affinità elettiva senza ricadute romantiche, ma di gusto esclusivamente estetico, che sentiva nei confronti dell’investigativa e candida anima russa (esemplari viventi a parte). I tentativi di nuove letture, le piccole sculture in argilla che non si decideva a mettere a primo fuoco erano le altre sue occupazioni. Non era disposta a cedere.
smesso di bere, smesso di farsi del male, non rimpiangere nulla del passato, tentare di rimanere saldamente inserita in ogni singola giornata. non più Bob. fare pasti regolari, andare dal dentista.
Non era più tempo di fughe oniriche da nostalgica hippie o di tentazioni visionarie alla Rimbaud, che avrebbero infranto un già precario senso della realtà che la garantiva dalla rottura.
comprare il pane, leggere un quotidiano.
Per il momento non le riusciva di avere frequentazioni con altri esseri umani, fatta eccezione delle misericordiose amiche francescane. Cercava di pensare a se stessa amando il suo tempo libero, non avrebbe potuto intrattenere relazioni impegnative che avrebbero aggiunto complessità alla solitudine in cui abitava da un po’, questo almeno ciò che lei si raccontava, e poi era irlandese.
perché non tornare a Dublino?
Non sopportava di essere un’irlandese tra irlandesi vecchio stampo.
In estenuanti sere di elucubrazioni al sapore amaro di Kilkenny e nicotina era riuscita a formalizzare in due parole quello che era stato il suo atteggiamento durante la prima giovinezza: un vagabondaggio cubista, non geniale, ma intriso di blu, rosa, spartiti musicali e strumenti a corde. Aveva rinunciato a una vita fatta di certezze incrollabili e verità inconfutabili, con la sicurezza preventiva di principi assoluti a scandire età e scelte. Aveva pensato che fossero le esperienze a far crescere, i desideri a aprire varchi, vie d’uscita a stagnazioni permanenti. Aveva avuto una vita di tensioni forti a destrutturare assetti noti, a complicare rapporti, a sfibrare amicizie.
Mezzogiorno. La luce del sole nel suo appartamento mostrava la polvere sugli scaffali, le sue vecchie foto ingiallite racchiuse da cornici gigliate fiorentine, la tappezzeria lisa dei divani. La stoffa logora, evidente solo di mattina, passava inosservata al pomeriggio, contraffatta dalle lampade di sera. Spettinata e trasandata nella mise da casa si aggirava infastidita da tanto implacabile chiarore, un po’ offesa dall’indiscrezione dell’astro.
Si svegliò. Le immagini ancora vivide dei suoi sogni notturni, forse ricordi di anni fa … Parigi … le colazioni sull’erba della Gare d’Orsay probabilmente, no, altri quadri, i quadri imperiali del Louvre, le affollarono la mente.
colori a olio, trementina, carboncini sparsi ovunque, tubetti spremuti, tele bianche.
A Parigi conobbe Bob, con Bob a Roma per l’Accademia di Belle Arti. Visi ovali al modo di Matisse, pomi, zuccheriere e biscotti al modo di Cézanne, vernici e dripping per tentare qualche americanismo … questo era lui, un potenziale falsario, un copista di mestiere.
Judy soffriva al pensiero che a vent’anni la disperata ricerca di un posto dove andare avesse sconfinato nell’abitudine alla fuga.
Le incongruità non mancavano. Aveva inconsciamente voluto trovarsi in balìa di crisi che soltanto lo scontro diretto con l’esistente avrebbero sedato. La voglia di addentrarsi nelle novità secondo un programma di ostinato pragmatismo non si confaceva alla sua natura introversa, riflessiva e, nell’ansia, esitante. Aver cambiato prima quartiere, poi città, paese, casa, l’aveva confusa, intristita. Era felice quando pensava alla sua attività di scenografa nei teatri di Roma (due sole stagioni), a tutto quello che costituiva la sua storia, perché restituiva spessore e dignità agli anni in cui senza più baricentro, gravità o capacità di presa sugli eventi, si era trovata sola nella stratosfera a disegnare orbite eccentriche.
Tutto il caos della sua personalità ruotava attorno alla rinuncia di una vita dublinese, da dublinese.
La sera precedente, dalla finestra della cucina, ebbe la visione di un treno fermo nella piccola stazione buia, un sedile sbiadito in piena luce a neon, uno scompartimento vuoto.
smettere di fumare, comprare shampoo, annaffiare fiori, pagare bollette, finire “Guerra e pace” (ah il sommo Lev!).
Le piaceva fare dei collage, l’assemblaggio di materie eterogenee le dava le dava la sensazione di corrispondere esattamente alla sua vita affastellata di esperienze fortemente dissimili. Cercava di sfruttare ogni libera associazione, le suggestioni di un istante. L’accostamento seguiva criteri estetici piuttosto che logici. Judy si domandava se avesse senso proseguire così, se la sua vita potesse mai ambire a una coerenza. Di certo la spaventava la depressione clinica, il vuoto ingordo che ogni giorno cercava di mangiarle un po’ di risorse facendola sprofondare in una silenziosa pena corrosiva che portava con sé un’eco di inutilità e vacuità.
Nel frattempo si godeva l’immersione casalinga del bagno, riempiva la vasca fino all’orlo di acqua caldissima.
Sognava una grande serra coperta da mettere in terrazza. Avrebbe fatto costruire una fontana in cui, sirena senza testa, si pensava immersa equiparata alle popolazioni degli abissi, annullata nella sua individualità.
Zen?
Si sentiva un bianco cetaceo con nostalgia dell’Oceano, una balena a riva, a dimenarsi senz’acqua, a tentare l’immersione.


La cena della sera


Agnese aspettava che il pizzaiolo estraesse le focacce dal fuoco.
Desiderio di sazietà, calore, conforto nell’attesa della cena: le capitava di imbambolarsi di fronte all’ogivale convesso del forno a legna, oltre quella sagoma ardevano braci feconde.
Distolto lo sguardo dal focolare, vide un tavolo apparecchiato poco distante, con un piatto in cui il filetto, lasciato ordinatamente tagliato a pezzi, rimandava all’assenza improvvisa del commensale ignoto.

sabato 29 gennaio 2011

riscrittura di 'Eveline' (da 'Gente di Dublino' di James Joyce)

LO STAGNO A PARTE, EVELINE


Ordinava i capelli in trecce, che raccoglieva sulla nuca in un modesto chignon. Stava seduta vicino alla finestra per ore intere. Non sempre guardava le case con la facciata di mattoni rossi, i passanti che rincasavano frettolosamente nel tardo pomeriggio, le ombre della sera … Conosceva perfettamente quel po’ di mondo inquadrato dall’intelaiatura degli infissi. Spesso si adagiava con gli occhi chiusi sulla poltrona, catturata dalle astrazioni in cui si cullava per sfuggire alla prigionia di una città spettrale, grigia, che solo a Natale acquistava un po’ di calore. Le capitava di non bere il tè scuro delle cinque, che opacizzava di vapore il vetro, lasciava la tazza fumante posata sul davanzale interno accanto a una fetta di pane di segale che avrebbe imburrato la mattina a colazione. Dopo la lettura dei racconti, dei romanzi, dei libri di viaggio di Guy de Maupassant, amava aspettare che il pallido sole invernale declinasse nel buio della notte. Nonostante la giovinezza dei suoi anni, si sentiva felice del poco che era la sua vita. Quel cantuccio della sala da pranzo era il suo posto. La casa era il centro, aveva sempre vissuto lì.
James, Eliza, Joe, Thomas e Catherine, i ragazzini che da un anno le erano stati affidati tre volte la settimana per una riabilitazione fono-lessicale. Le sembravano più sereni e felici: scandivano sillabando e pronunciavano bene le parole, parlavano schietti quanto potevano. Per fortuna curava disturbi non gravi.
Alcune signore del quartiere sferruzzavano per i marmocchi che la sera dell’Epifania avrebbero ricevuto cappelli, guanti, sciarpe di lana. Smistava anche alcuni abitucci smessi provenienti dalla parrocchia e li assegnava a chi avesse avuto bisogno di un maglioncino o di una gonnellina.
La mattina era dedicata alle faccende, alla spesa, alla preparazione del pasto per l’anziano genitore che quieto e silenzioso si disponeva tra la stanza da letto e il salottino a trascorrere il tempo dormicchiando, fumando e facendo quattro lenti passi in corridoio.
Venticinquenne, la ragazza cercava di non prestare troppa fede alle parole di Frank, che le prometteva il mondo. Attore brillante, per mesi in tournée, le aveva chiesto di raggiungerlo a Parigi per Capodanno, avrebbero vissuto la loro boheme! Uomo prestante sulla trentina dalla fervida immaginazione, candido colto Giano bifronte, il clown triste che desiderava sposare rappresentava l’altra metà del cielo. Sobria e salda nelle sue convinzioni, austera e legata alle sue abitudini, lei però era anche altro: le sue letture, i suoi progetti. Non riusciva a rinunciare drasticamente allo slancio (decadente invero, ndr) di un’esistenza votata alle arti, al teatro, all’amore. Negli incubi che le tormentavano il sonno vedeva dei bimbi correre lungo la scalinata della basilica del Sacro Cuore, ruzzolare a precipizio sul prato verde scosceso fino a diventare ruote di pietra che piombavano in mare. Ma anche alle prime luci dell’alba elaborava in modo fantasioso il trasferimento, doppiava in preda a una smania copista pagine e pagine di “Bel-Ami” sul quaderno che teneva sempre con sé, in borsa, come un monaco amanuense minacciato dai barbari urlanti alla porta, ripeteva a memoria alcune frasi nel terrore che un incendio riducesse in cenere la sua piccola biblioteca. Il senso del dovere era ugualmente amabile, l’accudimento della combriccola balbuziente e del padre era un onere di cui non voleva fare a meno. La pazzia consisteva nel tentare una complessa integrazione di esigenze e aspettative di felicità, lecite. Volle fargli capire, a Frank, l’impossibilità della scelta tra Montmartre e una vita coniugale in terra d’Irlanda, nel pieno rispetto delle aspirazioni personali calate nella realtà sociale dello stagno fortificato che era Dublino: le evasioni costano care, non rimane che il buonsenso, questo pensava Eveline.
Quel cretonne era proprio polveroso. Da un paio di settimane si ripeteva di lavare quelle tende di cotone ma la sospensione che gravava sulle sue sorti la induceva a una fissità interiore, un blocco della coscienza che paralizzava azioni e intenzionalità, eccetto la routine necessaria al sostentamento dei suoi cari.
Nel primo pomeriggio di quel martedì, seconda settimana d’Avvento, la neve faceva scricchiolare le suole delle scarpe delle sagome scure nel cortile di fronte, simili a indefinite macchie d’inchiostro che acquisivano peso e volume grazie al calpestio infastidito. Lo scalpiccio nervoso e il tramestio tra i miseri pacchetti regalo le commissioni le vettovaglie erano febbricitanti man mano che si avvicinava la Vigilia. Eveline quel giorno non mise a bollire l’acqua per il tè, il lieve torpore postprandiale si era impadronito della sua mente, la sonnolenza rallentava i movimenti e sospendeva nella vaghezza la tensione ansiosa che accompagnava l’attesa del responso. Si domandava quale decisione avesse preso Frank, giullare in corsia d’ospedale prima, pioniere della risata con una compagnia di girovaghi poi.
Quando li vide entrare dalla porta si spaventò. Un mostro con sei teste urlava e si dimenava scalciando. Era Frank con i monelli abbarbicati sulle spalle lungo la schiena tra le braccia. C’era un’allegria speciale nell’aria.

venerdì 28 gennaio 2011

LIDIA E EMMA

Mia madre ha ragione: “Lidia è una persona impossibile!”. Com’è che si dice? Potrei far perdere la pazienza a un santo.
Stanco persino me stessa con l’indecisione costante che accompagna tutti i miei atti. Il mio è un daltonismo delle emozioni, non so riconoscerle, non so cosa pensare, sono una, sono due persone in una, prima decido poi disdico la sera a teatro come anche nella vita, a questo punto, continuando così, non so se posso fidarmi di me stessa. Vorrei lasciar stare gli esami di glottologia e linguistica, bisogna dare un taglio all’università e lavorare subito nel sociale, nient’altro. E’ bello stare in mezzo alla gente: odierei fare la fine del topo di biblioteca!
Le opinioni che ho del mondo proliferano nella testa, poi mutano, non sento più miei i pensieri, non li sento adeguati, sono già altro. Ho 20 anni, forse è normale.
Ambisco a formulare dei ragionamenti, che per essere tali dovrebbero vantare una certa qual permanenza almeno nella sede in cui nascono. Risuonano insieme canto e controcanto. Devo tacitare il mio implacabile contrappunto che opera indisturbato e in modo logico, come liberarsene? Come si placa un alter ego contraddittorio?
Mentre le mie colleghe inforcano gli occhiali e alle 4 del pomeriggio divorano tomo su tomo, così fino a sera senza alzare gli occhi dai libri neanche per un caffè, io negli stessi pomeriggi divento una decoratrice di gusto medievalista: dei quaderni per gli appunti faccio pagine miniate. A ritroso nel tempo, dove andrò?
Vivo più d’istinto che di ragione, confesso che non sempre so esattamente la differenza. Tento alcune definizioni. L’istinto potrebbe essere la totalità del nostro io prima, la ragione la totalità del nostro io dopo che un’esperienza è diventata un piccolo tassello della nostra storia. E a distinguere istinto e ragione è il tempo tra i due momenti. Indifferentemente sia l’istinto che la ragione possono contenere un po’ di buio e un po’ di luce.
La ragione è prendere visione calma della globalità di quanto esiste attraverso la dialettica del pensiero, istinto è vivere dentro questo quadro.
Vivere è ciò che facciamo da quando nasciamo e non possiamo astenerci, vivere è un verbo che non esaurisce il suo significato nella permanenza di vita legata al nostro essere.
Asserire di vivere può suonare pretenzioso quando non velleitario o inutile se non ci fosse un principio primo cui ispirarsi, una causa cui votarsi, un progetto divino da decifrare e onorare come una promessa.
Vivo di malinconia, questo sì. 
Mia sorella Emma ha 24 anni, è già sposata, cucina divinamente. Così sensibile, è felice nel suo cantuccio, al riparo. Quando vado da lei, la trovo immersa negli aromi dei manicaretti che prepara. Non è la persona risolta e pacificata che si può immaginare, semplicemente sfugge al suo intelletto, con bontà si prende cura di chi ha vicino. Non si limita a fare un soffritto per il sugo: fa imbiondire delicatamente le cipolle, poi adagia qualche rondella di carota, uno spicchietto d’aglio, il macinato, un po’ di vino e il ragù alla bolognese è pronto per unirsi alle fettuccine, seguono poi la quiche lorraine e le barchette croccanti con mousse di tonno. Miscela materiali, mischia gli ingredienti avvolgendoli nell’impasto a base di farina, le crudezze si ammorbidiscono al calore del forno per ristorare specialmente il cuore. La sazietà calma la folle corsa del tempo, è la risposta per eccellenza - forse non la prima - a una domanda di appagamento che nasce da una privazione atavica.
Ho provato anch’io a fare lo stesso, ma per me il mondo non è fuori, lontano, inoffensivo, mi sento piuttosto chiamata alle armi, perseguitata da un allarme interno che impedisce la cura meticolosa nella preparazione di alcunché.
Mi identifico facilmente con due occhi aperti sul mondo, quindi con i miei occhi. E il mondo non è solo quello alla ribalta dei media.
Ho dedicato tempo alla cura della mia psiche, amo il linguaggio, amo le arti tutte.
Aspetto di entrare nella mia esistenza.
Il sentore della grazia divina mi svela l’amore che sarà.

Ila di Melanila

LUDOVICA E GUGLIELMO, UN FEUILLETON


LA RELIGIONE DEGLI ALTRI 1.
“Dio! Ancora con il rossetto? Devi sempre essere truccata tu eh?”.
Lei non risponde.
“E poi questo carminio così acceso … Lo sai che fa tanto Hollywood anni 40/50?”.
“E pure tu basta! Sempre a battere sullo stesso tasto! Non c’è altro argomento! Mi da allegria, ecco cos’è, mi fa sentire vivace, viva”.
“E va bene! Ho capito. Però ce l’hai sempre, ogni giorno. Non vorrei che se una mattina per caso esci senza poi è uno choc! Ci manca solo che al rinnovo della carta d’identità ci scrivano così, segni particolari: non la vedrete mai senza rossetto”.
“Mai che mi chiedessi come va al lavoro, se sto bene, se continui a parlarmi quando cammino, quando prendo il caffè nella pausa pranzo, quando sto sul bus la sera e mi sento stanca e guardo fuori dal finestrino …”.
Guglielmo tace. Il suo è un silenzio colpevole. Ludovica chiude gli occhi, sorride amaramente e insiste:
“Svuotata la cartuccia dei proiettili? Non hai altre armi per far fuoco? Secondo me un po’ di decenza ce l’hai ancora e sai che sono finiti i pretesti, gli appigli. Dillo che non mi ami più, dillo che volevi solo una pupattola da ammaestrare, una Swanilda per il tuo Coppelius … Beh no, mi dispiace. Ci tengo a essere me stessa, il mio io non lo vuole affatto il conquistatore colonialista che vorresti essere, io sono mia!”.
“Ancora con questi slogan. Ti accorgi che sei passata di moda?”.
“Mi vesto come voglio, mi sistemo i capelli come più mi garba. Non vivo per essere una tua creazione, la modella dello stilista pazzo!”, gridò.
Guglielmo uscì dalla stanza per tornare con una pistola ad acqua.
“Non lo fare!”, gli intimò lei.
“Ti ho detto di levare il rossetto”, ribadì lui, calmo.
“No!”, sentenziò con furore lei.
Guglielmo sparò. L’acqua sul viso di Ludovica non lavò via il trucco ma lo sciolse un poco.
“Bastardo!”, urlò piangendo.
Lui, irremovibile: “Devi fare come ti dico, capito?”.
“Noooo”.
Guglielmo sparò di nuovo. Stavolta l’acqua bagnò anche i capelli di Ludovica che per la rabbia si strofinò via il rossetto con il dorso della mano. Il suo viso divenne una maschera. Con un fil di voce disse al marito: “Tu non mi ami più e forse non mi hai mai amato. Confessalo”.
“Perché, tu mi ami? Chiedi quello che non dai”.
“Io sì, ti amo. Il rossetto lo metto perché mi piace e anche perché è un piccolo dispetto, lo ammetto. Ma sai, questa minima ribellione mi permette di vivere ancora con te”.
“Ti amo”.
Si abbracciarono. Guglielmo le parlò teneramente baciandole la guancia: “Lo faccio per la gente. Gli altri si basano sulle apparenze, ti giudicano solo dall’aspetto, ma non lo fanno per cattiveria … cercano di dare un ordine al mondo. Come registi senza talento, danno un ruolo secondo un cliché. Gli altri non ti vedono davvero. Bisogna accontentarli, rassicurarli, rabbonirli. Cerca di non dare nell’occhio, ti prego! Sei piccolina, voglio dire … non sei alta. La bocca rosso fiammante è più da diva che da donna. Vorrei proteggerti amore mio, vorrei proteggerti dal mondo intero”, e la guardò da una distanza che solo Ludovica avvertì e si intimorì, non Guglielmo, non lui, non suo marito si accorse che parlava con un fantasma della sua mente. Il dottor Coppelius era innamorato di un sogno. In ginocchio, sul pavimento, un uomo solo sorrideva e piangeva. Ludovica lasciò Coppelius al suo dolore. Il salotto era semibuio, quasi totalmente immerso nell’oscurità. Dopo il tramonto del sole, non ci si vedeva più.
“Ludo! Ludo! Dai vieni! Lodoletta del mio cuore, stai con me, per favore! Lo faccio per te rondinella. Tu non sai quanto può essere triste ricevere occhiatacce di disappunto o sorrisini ipocriti da persone che non riescono a capirti, poveretti che sono … Tu stai là ma solo la tua coscienza ti certifica a te stesso, nessuno si rivolge a te accorgendosi di te. E’ come non vivere. E chi ha rubato il tuo posto nel mondo? Chi?”.
Silenzio in casa. Ormai è notte inoltrata.
“Ludo, sono qui tesoro, sono il tuo demiurgo, sono il tuo dio, vieni dai, stai con me, ti spiego come va il mondo tesoro, come fai senza di me, non ce la fai senza di me, ti mangerà il lupo”. Guglielmo mentre parlava era su di un fianco, sul parquet, e dondolava cullandosi.
Dopo qualche tempo si accende una luce. Ludovica è in cucina.
“Guglielmo sto preparando la cena, dai alzati. Il rossetto l’ho buttato. Ok, farò come preferisci. Però sappi che domani mi iscrivo a un corso di Kick boxing, è da un po’ che ci penso, non ammetto contestazioni. Ti va la pasta all’amatriciana?”.
“Sì buona. Però il Kick boxing non è uno sport da donna, non è femminile, che diranno tutti?”.

E’ NATALE! 2.
 
“Guglielmo! Ti ho comprato il regalo di Natale! Vuoi sapere cos’è?”.
“No”.
“Ma come? Non sei curioso?”.
“No”.
“Te lo dico: l’opera omnia di Proust con un corredo critico di primo livello”.
“Hai sbagliato. Proprio come l’anno scorso. Sono uno studioso amatoriale di Proust, l'avrò già letto no? Ho scritto persino un saggio che nessuno pubblicherà, pensavo di avertelo detto …”.
 “Ma davvero? Torno in libreria e compro qualcos’altro”.
“Sicuro sarà un altro acquisto inutile”.
“Come se ti avessi deluso sempre … puoi perdonarmi?”.
“Anch’io ho pensato a un dono per te”.
“Fammi indovinare … un paio di scarpe nere lucide di vernice, tacco 12, come quelle già avute, apprezzate – belle per carità - e archiviate? Forse ti hanno consigliato male, sarà colpa del commesso, voglio pensare così. Sai, non mi capitano spesso serate di gala o cerimonie. La sera in salotto ci sono anch’io a vedere la televisione: hai presente?Fosse per me pianterei tutto: la casa, le traduzioni, i due giorni a settimana di Counseling e starei sempre in palestra o in villa a correre. Avrei preferito delle Sneakers”.
“Comprensibilmente”.
“Non ti capisco … hai voluto buttare i soldi? E’ un nuovo sport? … oltre a quello di avere sempre ragione?”.
“Ti vedo bene elegante, sei sempre in tuta, neanche mi sembri una donna! Ludo … Qualche centimetro di elevazione ti serve. A malapena arrivi alla credenza quando abbiamo ospiti e apparecchiamo con i piatti inglesi!”.
“Beh... ti ringrazio. Però ho il mio stile, piuttosto indiscutibile direi. Parlare si può, ma decido io”.
“Adesso ricominciamo oddio no … Penso di poter fare a meno delle tue dichiarazioni di poetica. Un tapirulan tutto per te: conforme al tuo mondo, ecco cosa avrai! ”.
“Sul tapirulan farò scorrere la tua collezione di ninnoli di vetro, maniaco di Tennessee Williams che non sei altro! Un classico natalizio è il trenino fischiettante sui binari, tu però avrai altro”.
“Che strega! Ma perché?”.
“Perché se vado in palestra non ho bisogno in salotto né del tapirulan né della cyclette”.
“E se è una cyber bike?”.
“E se è Jean-Yves Tadié a spiegare il senso della memoria proustiano, non va bene?” .
“E se ti dico che Marcel, qualora tornasse in vita, verrebbe a stabilirsi da noi, mangerebbe pastasciutta e scriverebbe storielle umoristiche?”.
“Sì e magari diventerebbe un tifoso di pallanuoto e starebbe all’alba con gli occhialetti rosa ad aspettare il sole dell’avvenire, con un bel sorriso pacifico, sull’amaca, di fronte alla finestra!”.
“Sì”.
To be continued

giovedì 27 gennaio 2011

Il mio giorno della memoria

E' un giorno molto particolare questo per la mia memoria personale. Ho visitato Auschwitz qualche anno fa, e dopo quel viaggio ho avuto la possibilità di raccontare la mia esperienza nelle scuole e a uditori diversificati.
La percezione del viaggiatore è quella di un viaggio all'inferno con il biglietto di ritorno in tasca. Il campo è una sorta di museo della morte in cui tutto è esposto tutto quello che era già stato documentato e conservato in maniera scientifica.

Scarpe, spazzole, nomi scritti su valigie senza più proprietari. Un ricordo chiaro, preciso di quella giornata non mi ha mai abbandonata: il cielo grigio, il filo spinato, i caseggiati, ho provato a fotografare con la mente il colore delle cose, dei muri. Ho sforzato quanto più possibile la mia memoria a fissare tutto quello che vedeva. Non ricordo rumori, i rumori non c'erano. C'era il silenzio.

Ma quello che ricordo con più sgomento è l'effetto fuga della mia mente, mentre ero li provavo a sfuggire alla realtà seppure mi costringessi a tentere ferma l'attenzione su quello che vedevo. Finito il viaggio in quella dimensione irreale e parallela sembravo tranquilla, ma era nella notte, nel mio inconscio che la paura veniva fuori. L'incubo ricorrente era che la mia famiglia fosse in pericolo, che dovessi scappare.
Avevo conservato dentro di me le sensazioni più intime legate alla visione della morte e poi nel momento in cui ero più fragile tutto veniva a galla.
Ho scritto molto, elaborato le mie sensazioni, studiato, visto film. Per me il giorno della memoria è un giorno della memoria nella memoria. e' un giorno sacro che non smetto di celebrare mai, senza coscienza critica però celebrare questo giorno non ha senso, occorre essere consapevoli della Storia per poter credere nel valore di queso giorno.

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Avrei voluto mettere on-line acune narrazioni che sto scrivendo per diletto. Preferisco oggi lasciare che siano altre voci a ristorare la memoria dolorosa della Shoah. Misterioso è il passaggio dall'umano dolore al cuore mistico.
Ilaria


Simone Weil/ Tre comandamenti

Non essere complici, non mentire, non restare ciechi.
Non importi, non sottoporti, non sovrapporti.

Etty Hillesum/La nonviolenza in Auschwitz

È davvero meraviglioso che io non abbia lasciato perdere tutti i miei ideali perché sembrano assurdi e impossibili da realizzare.
Eppure me li tengo stretti perché, malgrado tutto, credo ancora che la gente sia veramente buona di cuore.
Semplicemente non posso fondare le mie speranze sulla confusione, sulla miseria e sulla morte.
Vedo il mondo che si trasforma gradualmente in una terra inospitale; sento avvicinarsi il tuono che distruggerà anche noi; posso percepire le sofferenze di milioni di persone; ma, se guardo il cielo lassù, penso che tutto tornerà al suo posto, che anche questa crudeltà avrà fine e che ritorneranno la pace e la tranquillità.

Quella parte di me, la più profonda e la più ricca in cui riposo, è ciò che io chiamo Dio.
Le mie battaglie le combatto contro di me, contro i miei proprio demoni: ma combattere in mezzo a migliaia di persone impaurite, contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine, no, questo non è proprio il mio genere. Non ho paura, non so, mi sento così tranquilla. Mi sento in grado di sopportare il pezzo di storia che stiamo vivendo, senza soccombere. Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro corpo. Lo spirito viene dimenticato, s'accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in un modo sbagliato, senza dignità. Io non odio nessuno, non sono amareggiata, una volta che l'amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito.
Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato, anche se non ho quasi più il coraggio di dirlo quando mi trovo in compagnia.
La vita e la morte, il dolore e la gioia e le persecuzioni, le vesciche ai piedi e il gelsomino dietro la casa, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio.
Un'altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l'ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi, e perciò sono più familiari e assai meno terrificanti. Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi possono crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime.

Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein)/
NOTTE SANTA 24 dicembre 1936

Mio Signore Dio,
tu mi hai tracciato una strada
lunga e oscura,
sassosa e dura.
Spesso le mie forze
mi vogliono venir meno,
quasi non speravo più
che la luce splendesse.
Tuttavia quando il mio cuore impietrì
nel più profondo dolore,
ecco sorse per me una chiara,
dolce stella.
Mi condusse fedelmente
io la seguii,
dapprima esitante,
poi sempre più sicura.
Cosi' mi trovai infine
alla porta della chiesa.
Si aprì
io chiesi di entrare.
Sulla bocca del tuo sacerdote
mi salutò la benedizione.
Nell'intimo si allinea
una stella dopo l'altra.
Rosse stelle di sangue
mi indicano la strada verso di te.
Esse attendono la tua Notte Santa,
davvero la tua bontà me le fa splendere
sulla strada verso di te.

Esse mi conducono avanti.
Il segreto che io dovetti nascondere
nel profondo del cuore
lo posso ora annunciare a voce alta:
Io credo
io professo!
Il sacerdote sui gradini
mi conduce all'altare:
io chino la fronte.
L'acqua santa
mi scorre sul capo.
E' possibile, Signore,
che sia nuovamente generato
chi ha già oltrepassato
la metà della vita?
Tu lo hai detto,
e per me fu realtà.
Una lunga vita grave
di colpa e sofferenza mi lasciò.

Sinceramente ricevo il bianco mantello
che essi mi pongono sulle spalle,
luminosa immagine della purezza!
Io tengo in mano la candela.
La sua fiamma annuncia
che in me arde la tua vita santa.
Il mio cuore è ora diventato
una mangiatoia
che attende il tuo.
Non a lungo.
Maria, madre tua e anche mia,
mi ha dato il suo nome.
A mezzanotte mi pone nel cuore
il suo bimbo appena nato.
Oh, nessun cuore d'uomo
può comprendere
ciò che tu prepari a coloro
che ti amano.
Ora ti possiedo e non ti lascio mai più.
Dovunque vada la strada della mia vita
tu sei accanto a me:
nulla mi può mai separare
dal tuo amore.

Anna Frank/Diario

È davvero meraviglioso che io non abbia lasciato perdere tutti i miei ideali perché sembrano assurdi e impossibili da realizzare.
Eppure me li tengo stretti perché, malgrado tutto, credo ancora che la gente sia veramente buona di cuore.
Semplicemente non posso fondare le mie speranze sulla confusione, sulla miseria e sulla morte.
Vedo il mondo che si trasforma gradualmente in una terra inospitale; sento avvicinarsi il tuono che distruggerà anche noi; posso percepire le sofferenze di milioni di persone; ma, se guardo il cielo lassù, penso che tutto tornerà al suo posto, che anche questa crudeltà avrà fine e che ritorneranno la pace e la tranquillità.

Una nuova giornata

Iniziamo questa nuova giornata. Mi porto dietro lo strascico di ieri. solite cose, solite paranoie. ma io ho dichiarato aperta la mia resistenza. resistenza alle persone che non mi piacciono, perchè mi sembra giusto convivere con chi non ci piace, con chi la pensa diversamente. resistenza agli atteggiamenti sbagliati, resisistenza alle parole noiose.

Lascio aperta la resistenza e mi predispongo positivamente verso tutto quello che non mi piace per trasformare tutto in cose migliori. Forse divento un pò stronza, forse. Forse imparo finalmente a distinguere il bene dal male, l'essere gentile dal sembrare "stupida" o allocca o ingenua.

Forse Milano è la svolta!
Ma Milano è davvero una svolta, adesso devo trasformarla nella mia Milano, la cosa più difficile da fare.

mercoledì 26 gennaio 2011

Elogio della lentezza

Oggi vorrei tanto scrivere un Elogio della Lentezza
quanto affanno, quanta fretta, quanta energia in ogni momento della giornata.
Oggi preferirei tanto stare davanti a un tè con una buona amica a chiacchierare di cose futili...
Sarebbe davvero il massimo...
Lentezza, lentezza santa lentezza

scrivere per esserci

Melanila è per chi ha la testa piena di domande, per chi non dice mai: 'Così va il mondo! Sono cose che capitano!', per chi promuove il pensiero critico, per chi ama la comunicazione, per chi ha bisogno che ci sia arte!

Cara Mela

E' bello per me poter dar vita al nostro blog,
pensare che ci sia una corrispondenza in termini di amore per la danza (e per il teatro e per tanto altro),
volontà di esserci in questa esistenza per colmare la vita di interessi e passioni e affinità, solidarietà,
lettura di pagine,
scrittura di pagine!

Ecco il programma:

Riscrivere il mondo a suon d'inchiostro! 
Far parlare il cuore!
Dar voce ai poeti!
Tracciare dei segni!
Decodificare i segni tracciati da altri!
Far nascere la luce dove solo tenebra regna!

Con gratitudine,
Ila

martedì 25 gennaio 2011

E' bello aspettare il momento per poter parlare su questo blog, aspettare il momento che la luce del pomeriggio tagli trasversalmente la scrivania, e farlo prima che a qualcuno dia fastidio e sposti le tende.

E' bello mantenersi stretti nel proprio silenzio e non condividere pensieri se non con la pagina.

E' bello sapere di avere qualche segreto.

E' bello sapere che in una parte del tuo mondo una tua amica da alla luce una nuova vita

E' bello aspettare di scrivere un messaggio perchè piace condividere parole.

Oggi il mio pomeriggio...

lunedì 24 gennaio 2011

Frase del giorno

Se vuoi dirigere un'orchestra devi girare le spalle alla folla!!
Oggi è la mia giornata campale! oggi grande prova, ce la farò!!

venerdì 21 gennaio 2011

E' nato il blog

Ore 21.22
Cara Ila questo primo post del nostro blog è dedicato a te.
Un bacio.

mel