Il caso Judy
Aveva una corporatura robusta di donna celtica cui si aggrappavano seni abbondanti e lievi fasce di adipe lungo i fianchi, rotondità che non riuscivano a sistemarsi agevolmente sul suo corpo alto e slanciato di quarantacinquenne. Erano quelli i suoi abbracci, le sue difese contro altri corpi.
Judy spesso era cupa ma pronta ad accendersi di imprevista allegria quando nel muro della routine si apriva una crepa, una novità a sconvolgere la stesura piatta di accadimenti senza risonanze. Il sordo torpore della memoria cui si abbandonava era decisamente meglio che sentire i propri lamenti partire dall’interno senza poter deflagrare in un boato. I suoi occhi, vivi di un lume interno, erano due stretti e vigili spiragli che si affacciavano con poca curiosità sopra gli zigomi, costantemente spolverati dalle lunghe e vagamente arcuate ciglia. Arrossati a sera, quando anche l’intero viso partecipava con ogni suo piccolo muscolo ai pensieri-di-trivella-in-cunicoli-sassosi-duri-a-scavare, diventavano due severe fessure appesantite da palpebre stanche, che le conferivano un’espressione dubitativa di donna pensosa. Ma sorridere a chi? Non più a Robert.
Il suo salotto, il tè delle cinque e i racconti di Čechov: bastava quella consuetudine a dare accoglienza familiare allo straniero dentro di sé che il destino le aveva legato in mortale abbraccio, con filo spinato intorno al cuore. Il silenzio, altro protagonista muto, si colmava di stupore per l’affinità elettiva senza ricadute romantiche, ma di gusto esclusivamente estetico, che sentiva nei confronti dell’investigativa e candida anima russa (esemplari viventi a parte). I tentativi di nuove letture, le piccole sculture in argilla che non si decideva a mettere a primo fuoco erano le altre sue occupazioni. Non era disposta a cedere.
smesso di bere, smesso di farsi del male, non rimpiangere nulla del passato, tentare di rimanere saldamente inserita in ogni singola giornata. non più Bob. fare pasti regolari, andare dal dentista.
Non era più tempo di fughe oniriche da nostalgica hippie o di tentazioni visionarie alla Rimbaud, che avrebbero infranto un già precario senso della realtà che la garantiva dalla rottura.
comprare il pane, leggere un quotidiano.
Per il momento non le riusciva di avere frequentazioni con altri esseri umani, fatta eccezione delle misericordiose amiche francescane. Cercava di pensare a se stessa amando il suo tempo libero, non avrebbe potuto intrattenere relazioni impegnative che avrebbero aggiunto complessità alla solitudine in cui abitava da un po’, questo almeno ciò che lei si raccontava, e poi era irlandese.
perché non tornare a Dublino?
Non sopportava di essere un’irlandese tra irlandesi vecchio stampo.
In estenuanti sere di elucubrazioni al sapore amaro di Kilkenny e nicotina era riuscita a formalizzare in due parole quello che era stato il suo atteggiamento durante la prima giovinezza: un vagabondaggio cubista, non geniale, ma intriso di blu, rosa, spartiti musicali e strumenti a corde. Aveva rinunciato a una vita fatta di certezze incrollabili e verità inconfutabili, con la sicurezza preventiva di principi assoluti a scandire età e scelte. Aveva pensato che fossero le esperienze a far crescere, i desideri a aprire varchi, vie d’uscita a stagnazioni permanenti. Aveva avuto una vita di tensioni forti a destrutturare assetti noti, a complicare rapporti, a sfibrare amicizie.
Mezzogiorno. La luce del sole nel suo appartamento mostrava la polvere sugli scaffali, le sue vecchie foto ingiallite racchiuse da cornici gigliate fiorentine, la tappezzeria lisa dei divani. La stoffa logora, evidente solo di mattina, passava inosservata al pomeriggio, contraffatta dalle lampade di sera. Spettinata e trasandata nella mise da casa si aggirava infastidita da tanto implacabile chiarore, un po’ offesa dall’indiscrezione dell’astro.
Si svegliò. Le immagini ancora vivide dei suoi sogni notturni, forse ricordi di anni fa … Parigi … le colazioni sull’erba della Gare d’Orsay probabilmente, no, altri quadri, i quadri imperiali del Louvre, le affollarono la mente.
colori a olio, trementina, carboncini sparsi ovunque, tubetti spremuti, tele bianche.
A Parigi conobbe Bob, con Bob a Roma per l’Accademia di Belle Arti. Visi ovali al modo di Matisse, pomi, zuccheriere e biscotti al modo di Cézanne, vernici e dripping per tentare qualche americanismo … questo era lui, un potenziale falsario, un copista di mestiere.
Judy soffriva al pensiero che a vent’anni la disperata ricerca di un posto dove andare avesse sconfinato nell’abitudine alla fuga.
Le incongruità non mancavano. Aveva inconsciamente voluto trovarsi in balìa di crisi che soltanto lo scontro diretto con l’esistente avrebbero sedato. La voglia di addentrarsi nelle novità secondo un programma di ostinato pragmatismo non si confaceva alla sua natura introversa, riflessiva e, nell’ansia, esitante. Aver cambiato prima quartiere, poi città, paese, casa, l’aveva confusa, intristita. Era felice quando pensava alla sua attività di scenografa nei teatri di Roma (due sole stagioni), a tutto quello che costituiva la sua storia, perché restituiva spessore e dignità agli anni in cui senza più baricentro, gravità o capacità di presa sugli eventi, si era trovata sola nella stratosfera a disegnare orbite eccentriche.
Tutto il caos della sua personalità ruotava attorno alla rinuncia di una vita dublinese, da dublinese.
La sera precedente, dalla finestra della cucina, ebbe la visione di un treno fermo nella piccola stazione buia, un sedile sbiadito in piena luce a neon, uno scompartimento vuoto.
smettere di fumare, comprare shampoo, annaffiare fiori, pagare bollette, finire “Guerra e pace” (ah il sommo Lev!).
Le piaceva fare dei collage, l’assemblaggio di materie eterogenee le dava le dava la sensazione di corrispondere esattamente alla sua vita affastellata di esperienze fortemente dissimili. Cercava di sfruttare ogni libera associazione, le suggestioni di un istante. L’accostamento seguiva criteri estetici piuttosto che logici. Judy si domandava se avesse senso proseguire così, se la sua vita potesse mai ambire a una coerenza. Di certo la spaventava la depressione clinica, il vuoto ingordo che ogni giorno cercava di mangiarle un po’ di risorse facendola sprofondare in una silenziosa pena corrosiva che portava con sé un’eco di inutilità e vacuità.
Nel frattempo si godeva l’immersione casalinga del bagno, riempiva la vasca fino all’orlo di acqua caldissima.
Sognava una grande serra coperta da mettere in terrazza. Avrebbe fatto costruire una fontana in cui, sirena senza testa, si pensava immersa equiparata alle popolazioni degli abissi, annullata nella sua individualità.
Zen?
Si sentiva un bianco cetaceo con nostalgia dell’Oceano, una balena a riva, a dimenarsi senz’acqua, a tentare l’immersione.
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