LO STAGNO A PARTE, EVELINE
Ordinava i capelli in trecce, che raccoglieva sulla nuca in un modesto chignon. Stava seduta vicino alla finestra per ore intere. Non sempre guardava le case con la facciata di mattoni rossi, i passanti che rincasavano frettolosamente nel tardo pomeriggio, le ombre della sera … Conosceva perfettamente quel po’ di mondo inquadrato dall’intelaiatura degli infissi. Spesso si adagiava con gli occhi chiusi sulla poltrona, catturata dalle astrazioni in cui si cullava per sfuggire alla prigionia di una città spettrale, grigia, che solo a Natale acquistava un po’ di calore. Le capitava di non bere il tè scuro delle cinque, che opacizzava di vapore il vetro, lasciava la tazza fumante posata sul davanzale interno accanto a una fetta di pane di segale che avrebbe imburrato la mattina a colazione. Dopo la lettura dei racconti, dei romanzi, dei libri di viaggio di Guy de Maupassant, amava aspettare che il pallido sole invernale declinasse nel buio della notte. Nonostante la giovinezza dei suoi anni, si sentiva felice del poco che era la sua vita. Quel cantuccio della sala da pranzo era il suo posto. La casa era il centro, aveva sempre vissuto lì.
James, Eliza, Joe, Thomas e Catherine, i ragazzini che da un anno le erano stati affidati tre volte la settimana per una riabilitazione fono-lessicale. Le sembravano più sereni e felici: scandivano sillabando e pronunciavano bene le parole, parlavano schietti quanto potevano. Per fortuna curava disturbi non gravi.
Alcune signore del quartiere sferruzzavano per i marmocchi che la sera dell’Epifania avrebbero ricevuto cappelli, guanti, sciarpe di lana. Smistava anche alcuni abitucci smessi provenienti dalla parrocchia e li assegnava a chi avesse avuto bisogno di un maglioncino o di una gonnellina.
La mattina era dedicata alle faccende, alla spesa, alla preparazione del pasto per l’anziano genitore che quieto e silenzioso si disponeva tra la stanza da letto e il salottino a trascorrere il tempo dormicchiando, fumando e facendo quattro lenti passi in corridoio.
Venticinquenne, la ragazza cercava di non prestare troppa fede alle parole di Frank, che le prometteva il mondo. Attore brillante, per mesi in tournée, le aveva chiesto di raggiungerlo a Parigi per Capodanno, avrebbero vissuto la loro boheme! Uomo prestante sulla trentina dalla fervida immaginazione, candido colto Giano bifronte, il clown triste che desiderava sposare rappresentava l’altra metà del cielo. Sobria e salda nelle sue convinzioni, austera e legata alle sue abitudini, lei però era anche altro: le sue letture, i suoi progetti. Non riusciva a rinunciare drasticamente allo slancio (decadente invero, ndr) di un’esistenza votata alle arti, al teatro, all’amore. Negli incubi che le tormentavano il sonno vedeva dei bimbi correre lungo la scalinata della basilica del Sacro Cuore, ruzzolare a precipizio sul prato verde scosceso fino a diventare ruote di pietra che piombavano in mare. Ma anche alle prime luci dell’alba elaborava in modo fantasioso il trasferimento, doppiava in preda a una smania copista pagine e pagine di “Bel-Ami” sul quaderno che teneva sempre con sé, in borsa, come un monaco amanuense minacciato dai barbari urlanti alla porta, ripeteva a memoria alcune frasi nel terrore che un incendio riducesse in cenere la sua piccola biblioteca. Il senso del dovere era ugualmente amabile, l’accudimento della combriccola balbuziente e del padre era un onere di cui non voleva fare a meno. La pazzia consisteva nel tentare una complessa integrazione di esigenze e aspettative di felicità, lecite. Volle fargli capire, a Frank, l’impossibilità della scelta tra Montmartre e una vita coniugale in terra d’Irlanda, nel pieno rispetto delle aspirazioni personali calate nella realtà sociale dello stagno fortificato che era Dublino: le evasioni costano care, non rimane che il buonsenso, questo pensava Eveline.
Quel cretonne era proprio polveroso. Da un paio di settimane si ripeteva di lavare quelle tende di cotone ma la sospensione che gravava sulle sue sorti la induceva a una fissità interiore, un blocco della coscienza che paralizzava azioni e intenzionalità, eccetto la routine necessaria al sostentamento dei suoi cari.
Nel primo pomeriggio di quel martedì, seconda settimana d’Avvento, la neve faceva scricchiolare le suole delle scarpe delle sagome scure nel cortile di fronte, simili a indefinite macchie d’inchiostro che acquisivano peso e volume grazie al calpestio infastidito. Lo scalpiccio nervoso e il tramestio tra i miseri pacchetti regalo le commissioni le vettovaglie erano febbricitanti man mano che si avvicinava la Vigilia. Eveline quel giorno non mise a bollire l’acqua per il tè, il lieve torpore postprandiale si era impadronito della sua mente, la sonnolenza rallentava i movimenti e sospendeva nella vaghezza la tensione ansiosa che accompagnava l’attesa del responso. Si domandava quale decisione avesse preso Frank, giullare in corsia d’ospedale prima, pioniere della risata con una compagnia di girovaghi poi.
Quando li vide entrare dalla porta si spaventò. Un mostro con sei teste urlava e si dimenava scalciando. Era Frank con i monelli abbarbicati sulle spalle lungo la schiena tra le braccia. C’era un’allegria speciale nell’aria.
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